Racconto tratto dalla raccolta «Novelle per un anno» di Luigi Pirandello (1867-1936). Riscritto in italiano semplificato e adattato a studenti di livello intermedio (B1-B2)
Spatolino si corica vicino alla moglie che già dorme. Dice le solite orazioni, si distende e intreccia le mani dietro la nuca. Senza farci caso, inizia a fischiettare, come fa sempre quando un pensiero lo tormenta.
– Fififi... fififi... fififi...
Non è proprio un fischio, ma qualcosa fra un sibilo e un soffio.
La moglie si sveglia:
– Ah! Ci risiamo[1]? Cosa è successo?
– Niente. Dormi. Buona notte.
Si gira rannicchiandosi su un fianco, per dormire.
– Fififi... fififi... fififi...
La moglie lo scuote con un pugno sulla schiena.
– Ohé, la smetti? Guarda che mi svegli i bambini.
– Hai ragione. Sta’ zitta. Adesso dormo.
Si sforza di scacciare dalla mente quel pensiero tormentoso. Ma quando crede di averlo fatto:
– Fififi... fififi... fififi...
Questa volta non aspetta che la moglie gli tiri un pugno più forte del primo, e si alza dal letto.
– Che fai? Dove vai? – gli chiede la moglie.
– Mi rivesto. Non riesco a dormire. Mi siedo davanti alla porta. Prendo un po’ d’aria.
– Insomma. Si può sapere che diavolo ti è successo?
– Quella canaglia – dice arrabbiato Spatolino, sforzandosi di tenere la voce bassa, – quel farabutto, quel nemico di Dio...
– Chi? Chi?
– Ciancarella.
– Il notaio?
– Lui. Mi ha mandato a dire che mi vuole domani alla villa.
– E allora?
– Ma che può volere da me un uomo come quello? Quel porco.
Così dicendo, prende una sedia, apre la porta che richiude dietro di sé, e si mette a sedere nel vicoletto silenzioso, con le spalle appoggiate al muro della sua casa.
Dall’interno delle case vicine viene una puzza di stalla, e ogni tanto lo scalpitare[2] di qualche bestia tormentata dalla mosche. Un gatto striscia lungo il muro, si arresta guardingo. Spatolino guarda in alto la striscia di cielo brulicante di stelle, portandosi in bocca i peli della barba rossiccia.
Piccolo di statura, anche se fin da ragazzo ha solo impastato terra e calcina, ha qualcosa di signorile nell’aspetto. A un tratto, gli occhi chiari rivolti al cielo gli si riempiono di lacrime. Si scuote sulla sedia asciugandosi il pianto col dorso della mano, e nel silenzio della notte mormora:
– Aiutatemi voi, Cristo mio!
Nel paese la fazione clericale è stata battuta. Il nuovo partito degli scomunicati ha conquistato il Comune. Spatolino si sente come un soldato in mezzo a un campo nemico. Tutti i suoi compagni di lavoro, come tante pecore, si sono messi dietro ai nuovi caporioni[3], e ora spadroneggiano.
Con pochi altri operai rimasti fedeli alla santa Chiesa, Spatolino ha fondato la Società Cattolica di Mutuo Soccorso tra gl’Indegni Figli della Madonna Addolorata. Ma la lotta è impari[4]; e le beffe dei nemici e la rabbia dell’impotenza hanno fatto perdere a Spatolino il lume della ragione.
Come presidente di quella Società Cattolica, si occupa delle processioni e delle luminarie durante le feste religiose. Ma ci ha rimesso solo soldi, fra i fischi e le risate del partito avversario. Così il piccolo capitale che finora gli ha permesso di prendere qualche lavoro in appalto è quasi finito. E lui ha paura che fra poco diventerà un misero lavoratore a giornata.
La moglie, già da un pezzo, non ha piú per lui né rispetto né considerazione: lava e cuce per altri, fa ogni genere di servizio, provvede a guadagnarsi i soldi per sé stessa e i suoi figli.
Ma lui che colpa ne ha? Ma se la corporazione di quei figli di cane si prende tutti i lavori! Che pretende la moglie? Deve forse rinnegare Dio e iscriversi al partito di quelli? Ma si farebbe tagliare le mani piuttosto!
Ciancarella, il notaio, non ha mai parteggiato per nessuno; ma tutti sanno che è un nemico di Dio. Una volta ha aizzato[5] i cani contro un santo sacerdote, don Lagàipa, che era andato da lui per cercare di aiutare alcuni parenti poveri, che morivano addirittura di fame. Lui invece vive come un principe nella sua splendida villa, con la ricchezza accumulata in tanti anni di usura.
Tutta la notte Spatolino un po’ seduto, un po’ passeggiando per il vicoletto deserto, medita (fififí… fififí… fififí…) su quell’invito misterioso del Ciancarella. Quando l’alba si leva, si avvia verso la villa.
La villa del Ciancarella è murata come una fortezza. Un cancello affaccia sullo stradone. Il vecchio sembra un rospaccio[6] calzato e vestito. Una cisti enorme sul lato della nuca lo obbliga a tenere piegato su un lato il suo testone rasato. Abita da solo, con un servitore. Ma ha molta gente di campagna ai suoi ordini, armata, e due mastini che fanno paura solo a vederli.
Spatolino suona la campana e subito le due bestiacce si avventano[7] furibonde alle sbarre del cancello. Non si calmano neanche quando arriva il servitore ad aprire a Spatolino che non vuole entrare. Se ne vanno solo quando il padrone li chiama con un fischio. Ciancarella sta prendendo il caffè in mezzo al giardino, al lato della villa.
– Ah, Spatolino! Bravo, – dice il Ciancarella. – Siedi lí. – E gli indica uno dei sgabelli di ferro.
Ma Spatolino rimane in piedi, con il cappelluccio sporco di gesso tra le mani.
– Tu sei un indegno figlio, è vero?
– Sissignore, e me ne vanto: della Madonna Addolorata. Che comandi ha da darmi?
– Ecco, – dice Ciancarella; intanto beve tre sorsi di caffè. – Un tabernacolo – e beve un altro sorso.
– Come dice?
– Voglio che tu mi costruisca un tabernacolo – e prende ancora un sorso.
– Un tabernacolo, Vossignoria?
– Sí, sullo stradone, di fronte al cancello – altro sorso, l’ultimo; posa la tazza, e senza asciugarsi le labbra si alza in piedi. Una goccia di caffè gli scende da un angolo della bocca.
– Un tabernacolo, dunque, non tanto piccolo, perché ci deve entrare una statua di Cristo, a grandezza naturale. Alle pareti laterali ci voglio mettere due bei quadri, grandi: di qua, un Calvario[8]; di là, una Deposizione[9]. Insomma, come una stanzetta comoda, su una base alta un metro, con un cancelletto di ferro davanti, e la croce sopra. Hai capito?
– Ma Vossignoria scherza, è vero? – risponde meravigliato Spatolino.
– Scherzo? Perché?
– Io credo che Vossignoria voglia scherzare. Mi perdoni. Un tabernacolo, Vossignoria, all’Ecce Homo?[10]
Ciancarella prova ad alzare un po’ il testone raso, se lo tiene con una mano e ride in un suo modo speciale, curiosissimo, come se frignasse[11].
– Che c’è? – disse. – Non ne sono degno, secondo te?
– Ma nossignore, scusi! – dice Spatolino stizzito. – Perché dovrebbe Vossignoria commettere cosí, senza ragione, un sacrilegio? Mi perdoni se parlo franco. Chi vuol gabbare, Vossignoria? Dio, no; Dio non lo gabba; Dio vede tutto, e non si lascia gabbare da Vossignoria. Gli uomini? Ma vedono anche loro e sanno che Vossignoria…
– Che sanno, imbecille? – gli grida il vecchio, interrompendolo. – E che sai tu di Dio, verme di terra? Quello che ti hanno detto i preti! Ma Dio… Vah, vah, vah, io mi metto a ragionare con te, adesso… Hai fatto colazione?
– Nossignore.
– Brutto vizio, caro mio! Dovrei dartela io, ora, eh?
– Nossignore. Non prendo nulla.
– Ah, – esclama Ciancarella con uno sbadiglio. – Ah! I preti, figliolo, i preti ti hanno scombussolato il cervello. Dicono che io non credo in Dio. Ma sai perché? Perchè a loro io non do da mangiare. Ebbene ne avranno, quando verranno a consacrare il nostro tabernacolo. Voglio che sia una bella festa, Spatolino. Perché mi guardi cosí? Non ci credi? Vuoi sapere cosa è successo? Un sogno, figliolo! Ho avuto un sogno, l’altra notte. Ora certo i preti diranno che Dio m’ha toccato il cuore. Dicano pure; non me n’importa nulla! Dunque, ci siamo capiti, eh? Parla… dai… sei meravigliato?
– Sissignore, – confessa Spatolino, aprendo le braccia.
Ciancarella, questa volta, si prende la testa con le due le mani, per ridere a lungo.
– Bene, – poi dice. – Tu sai come sono fatto. Non voglio fastidi di nessun genere. So che sei un bravo operaio e che fai le cose per bene e onestamente. Fai tutto tu. Occupati del progetto e delle materiale senza seccarmi. Quando avrai finito, faremo i conti. Il tabernacolo… hai capito come lo voglio?
– Sissignore.
– Quando ti metterai all’opera?
– Per me, anche domani.
– E quando potrà esser finito?
Spatolino pensa per un po’.
– Eh, – poi dice, – se dev’essere cosí grande, ci vorrà almeno…, che so, un mese.
– Mi sta bene. Andiamo ora a vedere insieme il posto.
La terra, dall’altra parte dello stradone, appartiene pure al Ciancarella. È incolta, in abbandono: l’ha acquistata per non aver nessuno davanti alla villa. Permette ai pecorai di pascolare i loro greggi, come fosse una terra senza padrone. Il vecchio fa vedere il posto e poi torna in villa.
Spatolino rimasto solo rimane a lungo a riflettere:
– Fififi... fififi... fififi...
Poi si incammina e mentre torna a casa, si trova a passare davanti alla porta di don Lagaipa, che è anche il suo confessore, e decide di fargli visita.
Don Lagaipa è in piedi a pulire le canne di un fucile mentre la serva e la nipote fanno le pulizie. Il naso grande e carnoso, tutto bucato dal vaiolo, come una spugna.
– Mi rovinano, Spatolino, mi rovinano! Poco fa è venuto il garzone a dirmi che la mia campagna è diventata proprietà comune. Roba di tutti. I socialisti, capisci? Mi rubano l’uva, i fichidindia, tutto! Il tuo è mio, capisci? Il tuo è mio. Gli mando questo fucile. Alle gambe. Ho detto al garzone che deve sparare alle gambe. Un cura di piombo ci vuole... Ma cosa volevi dirmi, figliolo mio?
Spatolino gli racconta del tabernacolo e vede don Lagaipa trasecolare[12].
– Un tabernacolo?
– Sissignore: all’Ecce Homo. Vorrei sapere da Vostra Reverenza se posso farglielo.
– Lo domandi a me? Pezzo d’asino, che gli hai risposto?
Spatolino racconta quanto ha detto al Ciancarella.
– Benissimo! E lui? Il muso di cane che ha detto?
– Ha detto che ha avuto un sogno.
– Imbroglione! Non gli credere! Imbroglione! Se Dio veramente gli avesse parlato in sogno, gli avrebbe detto di aiutare quei poveretti dei Lattuga. Lui non li riconosce come parenti solo perché sono devoti e fedeli a Cristo. Lui invece protegge i Montoro, capisci? Quegli atei socialisti, a cui vuole lasciare tutte le sue ricchezze. Basta. Che vuoi da me? Fagli pure il tabernacolo. Se non glielo fai tu, glielo farà un altro. Tanto, per noi, se un peccatore vuole mostrare di riconciliarsi con Dio, è sempre un bene. Quell’imbroglione! Quel muso di cane!
Spatolino torna a casa. Per tutto il giorno disegna tabernacoli. Verso sera si reca per procurarsi i materiali, due manovali e un ragazzo per impastare la calcina. Il giorno dopo all’alba si mette all’opera.
Tutti quelli che passano per lo stradone polveroso, a piedi, a cavallo o con i carri, si fermano curiosi a chiedere a Spatolino:
– Che fai?
– Un tabernacolo.
– E chi l’ha ordinato?
Spatolino serio alza un dito al cielo:
– L’Ecce Homo.
Risponde sempre la stessa cosa per tutta la durata del lavoro. La gente ride o scrolla le spalle.
Qualcuno ogni tanto dice: – Ma proprio qua dovete costruirlo? – guardando verso il cancello della villa. La gente non immagina che la commissione del lavoro è stata fatta proprio da Ciancarella. Non sanno che quel terreno incolto appartiene a lui. Conoscono Spatolino e il suo fanatismo religioso. Tutti pensano che Spatolino costruisca quel tabernacolo per fare un dispetto al vecchio usuraio. E tutti ridono.
Alla fine del lavoro, proprio quando Spatolino deve mostrare il tabernacolo a Ciancarella, il notaio all’improvviso muore con un infarto. Spatolino non si leva dalla mente che quella morte sia la punizione della collera di Dio.
E dopo qualche giorno comincia a pensare che Dio sia arrabbiato anche con lui. Quando si presenta dagli eredi, la famiglia Montoro, per farsi pagare, questi non riconoscono il debito, senza nessun documento a provarlo.
– Come! – esclama Spatolino. – E il tabernacolo dunque per chi l’ho fatto io?
– Per l’Ecce Homo.
– Di testa mia?
– Oh insomma, – gli dicono quelli, per torglierselo di torno. – Come possiamo credere che nostro zio ti abbia dato un incarico cosí contrario al suo modo di pensare e di sentire. Non risulta da nulla. Che vuoi dunque da noi? Tieniti il tuo tabernacolo. Se non ti sta bene, vai in tribunale.
E certo che Spatolino va in tribunale. Ci va subito. Sicuramente non può perdere la causa. Nessun giudice potrà mai credere che l’opera l’ha costruita di testa sua. E poi ci sono i testimoni. Il servo di Ciancarella è venuto a chiamarlo per incarico del padrone. E poi c’è don Lagaipa. Gli ha riferito tutto. Poi c’è la moglie e i manovali che sanno tutto. Come potrebbe perdere?
Ma spatolino perde la causa. Sissignori, perde. Il servo di Ciancarella, adesso è passato al servizio dei Montoro. In tribunale ha detto:
– È vero signor giudice. Sono andato a chiamare Spatolino per comando di quella sant’anima del mio padrone. Ma non per l’incarico, ma perché aveva sentito dal giardiniere, (guarda caso, anche lui morto) che Spatolino aveva intenzione di costruire un tabernacolo di fronte al cancello, e voleva dissuaderlo[13]. Una volta, quando il padrone è stato avvisato che Spatolino scavava con tre operai ha detto: «E lasciatelo scavare. Non sapete che è matto?»
La testimonianza di don Lagaipa non è servita a niente. Tutti sanno dell’odio di don Lagaipa per il notaio. Invece gli operai hanno detto di non aver mai visto Ciancarella e che i soldi li hanno sempre presi da Spatolino.
Spatolino perde la causa, ma furioso non si rassegna. Non tanto per il capitale perso nel tabernacolo e nel processo, quanto per il crollo della sua fede nella giustizia divina.
Istigato da don Lagaipa, ricorre in appello[14]. Il giorno in cui gli arriva la notizia di aver perso anche la causa di appello, per Spatolino è un colpo molto duro. Non dice più una parola. Rimane a lungo immobile in silenzio. Poi all’improvviso prende gli ultimi soldi che gli sono rimasti ed esce a comprare un metro e mezzo di tessuto rosso e tre sacchi vecchi.
Torna a casa, butta i tre sacchi in grembo alla moglie e dice: – Fammi una tonaca!
– Cosa devo fare? – chiede stralunata la moglie.
– Ti ho detto: fammi una tonaca.... No? Me la faccio io.
In pochi minuti taglia e cuce i tre sacchi a forma di tonaca. Fa un fagottino[15] insieme al tessuto rosso e, senza salutare nessuno, esce di casa.
Circa un’ora dopo si sparge per tutto il paese la voce che Spatolino è impazzito e si è messo nel tabernacolo come la statua di Cristo.
– Come la statua di Cristo? Ma che vuol dire?
– Ma si. Proprio lui si è messo dentro al tabernacolo, immobile, come se fosse la statua di Gesù Cristo.
– Dite davvero?
– Davvero!
Tutto il popolo corre a vederlo, dentro al tabernacolo, dietro al cancelletto chiuso. È lì immobile, in piedi, insaccato[16] nella tonaca. Sulle spalle ha appoggiato il tessuto rosso come un mantello, ha una corona di spine in testa e un bastone in mano. Tiene la testa inclinata da un lato e guarda verso il basso.
Non si scompone minimamente né alle risate, né ai fischi, né agli urli indiavolati della folla che cresce sempre di più. Alcuni monelli gli tirano qualche buccia, parecchi lo insultano, ma lui sordo, immobile come una vera statua. Non sente neanche le preghiere della moglie e il pianto dei figli.
La gazzarra[17] finisce solo quando arrivano due guardie che forzano il cancello e arrestano Spatolino.
– Lasciatemi stare! Chi piú Cristo di me? – si mette allora a strillare Spatolino, divincolandosi. – Non vedete come mi beffano e come m’ingiuriano? Chi piú Cristo di me? Lasciatemi! Questa è casa mia! Me la son fatta io, col mio danaro e con le mie mani! Ci ho buttato il sangue mio! Lasciatemi, giudei!
Ma i giudei non lo lasciano prima di sera.
– A casa! – gli ordina il capo delle guardie. – Vai a casa, e fai attenzione a quello che fai!
– Sí, signor Ponzio Pilato, – gli risponde Spatolino, inchinandosi.
Ma chi gli può impedire di ritornare al tabernacolo. L’hanno detto anche i giudici che l’ha costruito lui, di sua iniziativa, con il suo denaro. Quella è casa sua e nessuno può mandarlo via. E, quatto quatto[18], ritorna al tabernacolo e lì riprende a fare la statua di Cristo, tutta la notte senza muoversi.
Provano a mandarlo via con lo scherno, poi con le minacce, poi con la fame. Ma lui non si muove, finché lo lasciano tranquillo come un povero matto che non fa male a nessuno.
Adesso ogni tanto qualcuno porta l’olio per la lampada. Qualcun’altro porta da mangiare e da bere. Qualche donna, piano piano, comincia a dire che è santo e va a pregare di fronte alla statua, piange e si raccomanda per lei e la sua famiglia. Una donna gli ha portato una tonaca nuova e gli ha chiesto i numeri del lotto.
I carrettieri che passano di notte per lo stradone sono abituati a quel lume che arde. Lo vedono da lontano con piacere. Si fermano un po’ lì davanti a pregare o conversare col povero Cristo, che sorride loro benevolmente. Poi se ne vanno. Il rumore dei carri si spegne a poco a poco nel silenzio. Il povero Cristo si riaddormenta o scende a fare i suoi bisogni dietro al muro. Ogni tanto si sveglia di soprassalto[19], si scosta la corona e si gratta la fronte, e poi ricomincia a pregare e meditare:
– Fififi... fififi... fififi...
[1] Ci risiamo: è un’esclamazione e significa ci siamo di nuovo; esprime fastidio per qualcosa di negativo che si ripete ancora una volta.
[2] scalpitare: è il rumore che fanno i cavalli quando sono irrequieti e battono gli zoccoli per terra.
[3] caporione: capo di un quartiere della città, con funzioni giudiziarie.
[4] impari: non pari, non allo stesso livello.
[5] aizzare: incitare all’aggressione.
[6] rospaccio: brutto rospo (nome alterato)
[7] avventarsi: scagliarsi contro.
[8] Calvario: il calvario (sofferenza) di Gesù, quando trasporta la croce.
[9] Deposizione: Gesù che viene tolto dalla croce e messo per terra.
[10] Ecce homo: Gesù Cristo. «Ecco l’uomo» espressione con la quale, nel Vangelo di Giovanni (19,5), Pilato presenta alla folla il Cristo flagellato e coronato di spine.
[11] frignare: lamentarsi piangendo in modo fastidioso, tipico dei bambini.
[12] trasecolare: rimanere molto sbalorditi.
[13] dissuadere: convincere a non realizzare qualcosa.
[14] appello: un secondo processo.
[15] fagottino: tessuti arrotolati.
[16] insaccato: infilato dentro al sacco.
[17] gazzarra: caos rumoroso di persone.
[18] quatto quatto: senza attirare l’attenzione.
[19] di soprassalto: all’improvviso, con un brusco movimento.