Racconto di Luigi Pirandello (1867-1936), iscritto in italiano semplificato e adattato a studenti di livello intermedio (B1-B2)
Farnetica[1]. I medici dicono che sia un principio di febbre cerebrale. Lo ripetono tutti i compagni di ufficio che ritornano dall’ospedale psichiatrico. Provano un certo gusto a dirlo ai colleghi con i termini scientifici appresi dai medici.
– Frenesia, frenesia.
– Encefalite.
– Infiammazione della membrana.
– Febbre cerebrale.
Vogliono sembrare afflitti, ma in fondo sono contenti. Contenti di aver compiuto il loro dovere ed essere finalmente usciti da quel triste ospedale, tutti in ottima salute.
– Morirà? Impazzirà?
– Mah!
– Morire, pare di no...
– Ma che dice? Che dice?
– Sempre la stessa cosa. Farnetica...
– Povero Belluca!
A nessuno passa per la testa che il suo caso può essere del tutto normale, per le particolari condizioni in cui quell’infelice vive da tanti anni. La sera precedente Bellucca, dopo un severo rimprovero del suo capufficio, per poco non gli è saltato addosso. Come è possibile? Non si può immaginare un uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca.
Circoscritto[2].... così l’ha definito un suo collega. Circoscritto entro i limiti molto ristretti della sua arida mansione[3] di contabile, fra partite semplici[4] e partite doppie, defalchi e prelevamenti, note, libri mastri e via dicendo. Un archivio dati vivente, o piuttosto, un vecchio asino che tira zitto zitto la carretta, sempre per la stessa strada, un passo dopo l’altro, con tanto di paraocchi[5].
Cento volte questo vecchio asino è stato frustato senza pietà, così per ridere. Per il gusto di vedere se si imbizzarrisce[6], se drizza le orecchie abbattute[7], o da segno di alzare un piede per sparare un calcio. Ma lui niente! Si prende le frustate ingiuste e i crudeli rimproveri senza fiatare, come se le meritasse, o meglio, come se non le sentisse più, abituato da anni alle continue bastonate della sorte.
Tanto più che la sera precedente il capufficio aveva tutto il diritto di rimproverarlo. Già la mattina Belluca si presenta con un’aria insolita, nuova. Ma soprattutto, arriva con mezz’ora di ritardo, cosa che ha sconvolto tutti quanto il crollo di una montagna. Sembra che all’improvviso il viso si sia allargato. Sembra che i paraocchi gli siano caduti, scoprendo di colpo lo spettacolo della vita. Sembra che le orecchie si siano sturate[8] e per la prima volta sente voci, suoni mai avvertiti prima. Così allegro, di un’allegria insolita e piena di stordimento. Non combina niente per tutto il giorno.
La sera il capufficio entra nella stanza ed esamina i registri.
– E come mai? Che hai combinato tutto il giorno?
Belluca lo guarda sorridente, quasi con un’aria impudente, aprendo le mani.
– Che significa? – Esclama il capufficio.
Si avvicina, lo prende per una spalla e lo scrolla.
– Ohé, Belluca!
– Niente, – risponde Belluca, sempre con quel sorriso sulle labbra tra l’impudente e l’imbecille.
– Il treno, signor Cavaliere.
– Il treno? Che treno?
– Ha fischiato.
– Ma che diavolo dici?
– Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare...
– Il treno?
– Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere!
Gli altri impiegati, alle grida del capufficio imbestialito, entrano nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, si mettono a ridere come pazzi.
Allora il capufficio, già di pessimo umore, infastidito da quelle risate, si arrabbia e tratta molto male Belucca. Ma questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, si ribella, e urla contro il capufficio con tono minaccioso.
— Il treno ha fischiato, e adesso che ho sentito il treno fischiare, perdio, non mi faccio trattare in questo modo.
Arrivano gli infermieri, gli mettono la camicia di forza e lo trascinano all’ospedale dei matti. In clinica continua a parlare di quel treno. Ne imita il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; malinconico. E, subito dopo, aggiunge:
– Si parte, si parte... Signori, per dove? Per dove?
E guarda tutti con occhi che non sono più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza luce, aggrottati[9], ora ridono lucidissimi, come quelli d’un bambino o d’un uomo felice; e frasi senza senso gli escono dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, fantasiose, bislacche. Non si riesce a spiegare per quale prodigio, quelle frasi escano dalla bocca di uno come lui, cioè uno che finora non s’è mai occupato d’altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: una macchinetta di computisteria[10]. Ora parla di azzurre montagne nevose, innalzate al cielo; parla di viscidi cetacei che, sul fondo dei mari, con la coda fanno la virgola. Cose, ripeto, inaudite.
Il collega che mi ha riferito tutto questo è rimasto molto sconcertato del fatto che non ho mostrato la più lieve sorpresa. Difatti la notizia io l’ho accolta in silenzio. E il mio silenzio è pieno di dolore. Tentenno il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dico: – Signori, Belluca non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev’essergli accaduta; ma del tutto normale. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest’uomo ha vissuto finora. Io che lo so, sono sicuro che mi spiegherò tutto normalmente, appena l’avrò visto e avrò parlato con lui.
Cammino verso l’ospizio dove il poverino è stato ricoverato. Continuo a riflettere per conto mio. A un uomo che ha vissuto come il Belluca, cioè una vita “impossibile”, la cosa più ovvia, l’incidente più comune, un qualunque lievissimo imprevisto, anche il solo inciampare per strada, possono produrre effetti straordinari, che nessuno può spiegare, se non pensa appunto che la vita di quell’uomo è “impossibile”. Bisogna trovare la spiegazione in quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi vede soltanto una coda, senza vedere il mostro a cui essa appartiene, potrebbe considerarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora sembrerà la coda normale di un mostro.
Non ho mai visto un uomo vivere come Belluca. Sono suo vicino di casa, e insieme agli altri inquilini ci chiediamo spesso come faccia quell’uomo a resistere in quelle condizioni di vita. A casa sua vivono tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera. Le ultime due, vecchissime, non ci vedono per la cataratta. L’altra, la moglie, è totalmente cieca, con le palpebre chiuse. Tutt’e tre vogliono essere servite. Strillano dalla mattina alla sera perché nessuno le serve. Ci sono anche due figlie vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti. L’una con quattro, l’altra con tre figliuoli, che non hanno mai né tempo né voglia da badare a loro. Al massimo qualche piccolo aiuto alla madre soltanto.
Con lo scarso guadagno del suo piccolo impiego di contabile, come fa Belluca a dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procura altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopia ogni sera tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché, tutt’e dodici, non vanno a dormire nei tre soli letti della casa. Letti ampi, matrimoniali; ma tre. Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al buio, scappa e va a infilarsi fra le tre vecchie cieche, che dormono in un letto a parte, e che ogni sera litigano tra loro, perché nessuna delle tre vuole stare in mezzo e si ribella ogni volta che arriva il suo turno. Alla fine, arriva il silenzio, e Belluca continua a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cade di mano e gli occhi non gli si chiudono da soli. Allora va a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofonda in un sonno di piombo[11], da cui ogni mattina si leva a stento, più intontito che mai. Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, è accaduto un fatto naturalissimo.
Quando sono andato a trovarlo all’ospizio, me lo ha raccontato lui stesso, per filo e per segno. È ancora un po’ esaltato, ma in modo del tutto naturale, per ciò che gli è accaduto. Ride dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credono impazzito.
– Magari! – dice – Magari!
Signori, Belluca s’è dimenticato da tanti e tanti anni, ma proprio dimenticato, che il mondo esiste. Assorto nel continuo tormento della sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, legata alla stanga di un mulino, sissignori, s’è dimenticato da anni e anni, ma proprio dimenticato, che il mondo esiste.
Due sere prima, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l’eccessiva stanchezza, non è riuscito ad addormentarsi subito. E, d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, ha sentito da lontano fischiare un treno. Gli è sembrato che le orecchie, dopo tanti anni, chi sa come, all’improvviso si fossero sturate. Il fischio di quel treno gli ha squarciato e portato via di colpo la miseria di tutti quegli orribili tormenti. Da una tomba scoperchiata s’è ritrovato a volteggiare[12] nell’aria del mondo che gli si è spalancato enorme tutt’intorno. Fuori da quella casa orrenda, fuori da tutti i suoi tormenti, c’è il mondo, tanto mondo lontano, verso cui quel treno si avvia... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui era stato da giovane, e che ancora sfavillano di luci sulla terra.
Si, lui conosce la vita che si viveva in quelle città. Una vita che un tempo ha vissuto anche lui. E quella vita continua. Ha sempre continuato. Mentre lui, come una bestia bendata, continua a far girare il mulino legato alla stanga. Non ci ha pensato più. Il mondo si è chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arido e angusto spazio del suo lavoro di contabile. Ma ora quella vita è rientrata violentemente nello suo spirito. La sua immaginazione improvvisamente risvegliata, può viaggiare per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari...
Mentre lui vive qui la sua vita impossibile, ci sono tanti e tanti milioni di uomini sparsi sulla terra che vivono diversamente. Nello stesso istante in cui lui soffre qua, ci sono le montagne solitarie nevose che levano al cielo notturno le azzurre vette... sì, sì, le vede, le vede così... ci sono gli oceani... le foreste... E ora che il mondo è rientrato nel suo spirito, riesce in qualche modo a consolarsi. Levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo.
Il primo giorno ha esagerato. Si è ubriacato. Tutto il mondo è entrato in un solo colpo: un cataclisma[13]. A poco a poco potrà ricomporsi. Andrà a chiedere scusa al capufficio e riprenderà come prima il suo lavoro di contabile. Ma il capufficio non potrà più pretendere come in passato. Dovrà concedergli, fra un conteggio e l’altro, di fare una capatina[14] in Siberia... oppure... nelle foreste del Congo.
– Si fa in un attimo, signor Cavaliere. Ora che il treno ha fischiato....
[1] Farneticare: dire cose prive di senso logico, in preda a uno stato confusionale.
[2] circoscritto: con uno spazio di movimento molto limitato.
[3] arida mansione: lavoro senza emozione.
[4] partite semplici....libri mastri: tutti termini tecnici che riguardano la contabilità.
[5] paraocchi: pezzi di cuoio che vengono messi al lato degli occhi del cavallo o dell'asino, per limitare la visione alla sola strada e impedire di essere disturbato e innervosito da quello che succede tutt'intorno.
[6] imbizzarrisce: normalmente è riferito ai cavalli, quando diventano nervosi e si alzano dritti sulle zampe posteriori.
[7] abbattute: tenute in basso, in segno di depressione.
[8] sturate: aperte, liberate da qualcosa che impediva di sentire i suoni.
[9] aggrottati: con le sopracciglie contratte, espressione che indica cattivo umore.
[10] computisteria: la matematica delle attività commerciali.
[11] sonno di piombo: sonno molto pesante.
[12][12] volteggiare: volare in cerchio intorno allo stesso posto, come fanno a volte gli uccelli.
[13] cataclisma: disastro naturale molto violento, come terremoto, inondazione, uragano.
[14] capatina: visita molto veloce.