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Un racconto di Italo Calvino, tratto dal libro «Marcovaldo ovvero le stagioni in città», riscritto in italiano semplificato per studenti di livello intermedio.

 

Marcovaldo va spesso al cinema, soprattutto durante le fredde serate invernali. Gli piacciono i film a colori su grande schermo, dove la sua mente si perde in verdi praterie, montagne rocciose, foreste equatoriali e isole tropicali. Guarda sempre il film due volte e esce solo quando il cinema chiude. All’uscita, quando vede la solita città, gli vengono in mente i tram, i semafori, i magazzini e i reparti d’imballaggio, e tutto lo splendore del film svanisce in una tristezza grigia e sbiadita.

Una sera vede un film ambientato in India, con serpenti, terreni paludosi, monumenti antichi inghiotti[1] dalla giungla. Quando esce dal cinema la nebbia è calata sulla città, e non si vede più niente. Una nebbia spessa e opaca, che avvolge le cose e i rumori, rende lo spazio senza dimensioni, mescola le luci con il buio trasformandole in bagliori senza forma.

Marcovaldo si accorge di essere felice: il mondo è stato cancellato e lui può colorare questo vuoto con le immagini dell’India, del Gange, della giungla, di Calcutta. Si dirige verso la fermata del tram finché sbatte col naso contro il palo del cartello. Il tram arriva evanescente come un fantasma. Guardando fuori dal finestrino la notte è uno schermo sconfinato sul quale può continuare a proiettare un film ininterrotto.

Sognando ad occhi aperti, perde il conto delle fermate e, quando scende dal tram, si ritrova in un quartiere sconosciuto. Non riesce a trovare neanche un passante al quale chiedere informazioni. Cammina sperduto per la città finché vede un chiarore verso il quale si dirige. Raggiunge l’entrata di un’osteria e prova a chiedere qualche informazione. Ma c’è un gran rumore, ubriachi che ridono e anche le informazioni che ottiene sono nebbiose e sfuocate. Alla fine ordina un quarto di vino, poi un altro mezzo litro, più qualche bicchiere offerto dagli altri.

Esce dall’osteria un po’ brillo[2] e riprende la strada riscaldato dal vino. Cammina a lungo e si ritrova in una zona che sembra disabitata, dove ci sono muri che sembrano recinti di fabbriche. Sull’orlo di un muro vede un grande cartello, ma non riesce a leggere la scritta. Si arrampica su un palo di un cartello stradale e sale sul muro per avvicinarsi alla scritta e legge: «L’ingresso è severamente vietato alle persone non autorizzate». La cosa non l’aiuta, ma vede che l’orlo del muro è abbastanza largo da poterci camminare sopra comodamente e anche ben illuminato dai lampioni, per cui proseguo il suo cammino lungo l’orlo del muro. A un certo punto vede una superficie piana attaccata al muro, forse il tetto in cemento di un edificio.

Decide di camminare su questa superficie, ma ben presto si ritrova al buio, senza la luce dei lampioni e non riesce più a vedere dove mette i piedi. In basso si vedono alcune piccoli luci a volte rosse a volte verdi, disposte in file regolari. All’improvviso mette un piede nel vuoto e precipita. «Sono morto!» pensa, ma si ritrova seduto sul terreno morbido di un prato. Si dirige verso le luci disposte in fila e vede che sono lampadine che corrono ai lati di una grande strada asfaltata.

Prosegue lungo questa strada finché vede la figura di un uomo, con una tuta gialla, che agita due palette luminose. Marcovaldo si affretta verso l’uomo e prima ancora di averlo raggiunto comincia a gridare:

– Ehi, lei, dica, in mezzo a questa nebbia, come si fa...

– Non si preoccupi... sopra i mille metri non c’è nebbia. Prenda la scaletta. Gli altri sono già saliti.

Marcovaldo non capisce il senso di quella risposta, ma è incoraggiato dal sentire che ci sono altre persone. Avanza di qualche metro e vede apparire la piccola scala. Sale finché arriva ad una porticina dove c’è una ragazza che lo saluta molto gentilmente.

Entra e si ritrova in una specie di lungo autobus con molti posti vuoti. Che fortuna ha avuto, forse questa è l’ultima corsa dell’autobus. Lui aveva preso sempre il tram perché costava di meno, ma non sapeva che gli autobus fossero così belli, con poltrone morbide e accoglienti.

Decide che d’ora in poi prenderà sempre l’autobus, anche se ha notato alcune cose strane: l’altoparlante ha detto che devono allacciarsi le cinture e non possono fumare, e il rombo del motore alla partenza è un po’ esagerato. Vede qualcuno in uniforme che passa tra i sedili.

– Scusi, signor bigliettaio, – dice Marcovaldo – sa se c’è una fermata dalle parti di via Pancrazio Pancrazietti?

– Come dice signore? Il primo scalo è Bombay, poi Calcutta e Singapore.

Marcovaldo si guarda intorno. Negli altri posti ci sono indiani con la barba e col turbante. Vede anche una donna con un sari[3] ricamato e un cerchietto rosso sulla fronte[4].

La notte dal finestrino è piena di stelle, ora che l’aereo vola a grande altezza nel cielo limpido.

 

[1] inghiottire: letteralmente significa deglutire, far passare dalla bocca alla faringe. In questa frase il termine è suato metaforicamente, come se la giungla avesse mangiato i monumenti.

[2] brillo: ubriaco.

[3] sari: vestito tradizionale indiano. (vedi immagine)

[4] cerchietto rosso sulla fronte: si chiama tilaka, un segno rosso circolare tradizionale delle donne indiane (vedi immagine)

 


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