Racconto tratto dal romanzo «Cuore» di Edmondo de Amicis (1846-1908). Riscritto in italiano semplificato e adattato a studenti di livello intermedio (B1-B2)

 

È un giorno piovoso di marzo, davanti all’Ospedale maggiore di Napoli. Un ragazzo vestito da contadino, tutto bagnato e infangato, con dei panni arrotolati sotto il braccio, si presenta al portinaio. Gli consegna una lettera e domanda di suo padre. Ha un bel viso ovale d’un bruno pallido, gli occhi pensierosi e due grosse labbra semiaperte, che lasciano vedere i denti bianchissimi. Viene da un villaggio dei dintorni di Napoli.

Suo padre lavorara in Francia. Da pochi giorni è tornato, ma arrivato a Napoli, si è ammalato improvvisamente. Ha fatto appena fatto in tempo a scrivere una lettera alla famiglia, per avvisare del suo arrivo e dire che entrava in ospedale. Sua moglie ha una bambina malata e un’altra piccola da allattare, e non può muoversi di casa. Quindi ha mandato a Napoli il suo figlio maggiore per assistere il padre. Il ragazzo ha fatto dieci miglia di cammino.

Il portinaio guarda la lettera, chiama un infermiere e gli dice di accompagnare il ragazzo dal padre.

– Che padre? – domanda l’infermiere.

Il ragazzo, tremante per il timore d’una triste notizia, dice il nome. L’infermiere non si ricorda di quel nome.

– Un vecchio operaio venuto di fuori? – domanda.

– Operaio sì, – risponde il ragazzo, sempre più ansioso; non tanto vecchio. Venuto di fuori, sì.

– Entrato all’ospedale quando? – domanda l’infermiere.

Il ragazzo dà uno sguardo alla lettera. – Cinque giorni fa, credo.

L’infermiere pensa un po’; poi a un tratto dice: – Ah! Il quarto camerone, il letto in fondo.

– È malato molto? Come sta? – domanda preoccupato il ragazzo.

L’infermiere lo guarda, senza rispondere. Poi dice: – Vieni con me.

Salgono due piani di scale, attraversano un largo corridoio ed entrano in un camerone con due file di letti.

– Vieni, – ripete l’infermiere, entrando. Il ragazzo si fa coraggio e lo segue, guardando timoroso a destra e a sinistra, sui visi bianchi e magri dei malati. Alcuni hanno gli occhi chiusi, e sembrano morti, altri guardano in aria, con gli occhi grandi e fissi, come spaventati. Parecchi gemono, come bambini. Il camerone è buio, l’aria impregnata d’un odore acuto di medicinali. Due suore di carità girano intorno con delle boccette in mano. Arrivato in fondo al camerone, l’infermiere si ferma alla spalliera d’un letto, apre le tendine e dice: – Ecco tuo padre.

Il ragazzo scoppia a piangere, lascia cadere il fagotto di panni e appoggia la testa sulla spalla del malato, afferrandogli con una mano il braccio che tiene disteso immobile sopra la coperta. Il malato non si muove.

Il ragazzo si rialza e guarda il padre, scoppiando in lacrime di nuovo. Allora il malato lo guarda a lungo e sembra quasi riconoscerlo. Ma le sue labbra non si muovono. Povero Tata[1], quanto è cambiato! Il figlio non l’avrebbe mai riconosciuto. I capelli sono diventati bianchi, ha una lunga barba, il viso gonfio, d’un colore rosso carico, con la pelle tesa e luccicante, gli occhi rimpiccioliti, le labbra ingrossate, la fisionomia tutta alterata: di suo gli rimane solo la fronte e l’arco delle sopracciglia. Respira con affanno.

– Tata, tata mio! – dice il ragazzo. – Son io, non mi riconoscete? Sono Ciccillo[2], il vostro Ciccillo, venuto dal paese. Mi ha mandato la mamma. Guardatemi bene, non mi riconoscete? Ditemi una parola.

Ma il malato, dopo averlo guardato attentamente, chiude gli occhi.

– Tata! Tata! che avete? Sono vostro figlio, Ciccillo vostro.

Il malato non si muove più, e continua a respirare affannosamente. Allora, piangendo, il ragazzo prende una sedia, si siede e aspetta, senza togliere gli occhi dal viso di suo padre.

– Quando passerà il medico, – pensa. – mi dirà qualche cosa. – Ricorda tante cose del suo buon padre: il giorno della partenza, quando gli ha dato l’ultimo addio sulla nave, le speranze della famiglia per quel suo viaggio, la disperazione di sua madre all’arrivo della lettera. E poi pensa alla morte, vede suo padre morto, sua madre vestita di nero, la famiglia nella miseria. E rimane molto tempo così.

Un mano gli tocca leggermente una spalla. Lui si scuote: è una monaca.

– Che cos’ha mio padre? – le chiede subito.

– È tuo padre? – dice la suora, dolcemente.

– Sì, è mio padre. Che cos’ha?

– Coraggio, ragazzo, – risponde la suora; – ora verrà il medico. – E si allontana, senza dire altro.

Dopo mezz’ora, sente il suono d’una campanella, e vede entrare in fondo al camerone il medico, accompagnato da un assistente. La suora e un infermiere li seguono. Cominciano la visita, fermandosi a ogni letto. Quell’attesa sembra eterna al ragazzo, e ad ogni passo del medico gli aumenta l’ansia. Finalmente arriva al letto vicino. Il medico è un vecchio alto e curvo, col viso severo. Prima di aver terminato la visita nel letto vicino, il ragazzo si alza in piedi, si avvicina e si mette a piangere.

Il medico lo guarda.

– È il figlio del malato – dice la suora; – è arrivato questa mattina dal suo paese.

Il medico gli posa una mano sulla spalla, poi si china sul malato, gli tasta il polso, gli tocca la fronte, e fa qualche domanda alla suora, la quale risponde: – nulla di nuovo.

Rimane un po’ pensieroso, poi dice: – Continuate come prima.

Allora il ragazzo si fa coraggio e domanda con voce di pianto: – Che cos’ha mio padre?

– Fatti animo, figliolo, – risponde il medico, rimettendogli una mano sulla spalla. – Ha una erisipela[3] facciale. È grave, ma c’è ancora speranza. Assistilo. La tua presenza gli può far del bene.

– Ma non mi riconosce! – esclama il ragazzo con tono desolato.

– Ti riconoscerà... domani, forse. Speriamo bene, fatti coraggio.

Il ragazzo vorrebbe domandare altro; ma non ha il coraggio. Il medico passa oltre.

E allora comincia la sua vita d’infermiere. Non potendo far altro mette a posto le coperte al malato, gli tocca ogni tanto la mano, gli scaccia i moscerini, si china su di lui ad ogni gemito, e quando la suora porta da bere, le toglie di mano il bicchiere, e pensa lui a far bere suo padre.

Il malato ogni tanto lo guarda; ma non sembra riconoscerlo. E così passa il primo giorno. La notte il ragazzo dorme sopra due sedie, in un angolo del camerone, e la mattina riprende il suo compito di assistenza. Gli occhi del malato sembrano mostrare un principio di coscienza. Ogni tanto i suoi occhi sembrano avere un’espressione di gratitudine, e una volta muove un poco le labbra come se volesse dire qualche cosa.

Ogni volta che riapre gli occhi, dopo una breve dormita, sembra cercare il suo piccolo infermiere. Il medico, ripassato due volte, nota un piccolo miglioramento. Verso sera, avvicinandogli il bicchiere alle labbra, al ragazzo sembra di vedere un sorriso. E allora comincia a sperare. E con la speranza d’essere capito, gli parla a lungo, della mamma, delle sorelle piccole, del ritorno a casa, e lo incoraggia, con parole calde e amorose. Non è sicuro che suo padre capisca, ma continua a parlare, perché gli sembra che il malato ascolti con un certo piacere la sua voce, quell’intonazione insolita di affetto e di tristezza. E in questo modo passa anche il secondo giorno, e il terzo, e il quarto, con miglioramenti leggeri e peggioramenti improvvisi.

Il ragazzo è così impegnato ad assistere il padre, che riesce appena a mangiare due volte al giorno un po’ di pane e un po’ di formaggio, che gli porta la suora. Non vede quasi quello che succede intorno a lui, i malati moribondi, l’accorrere improvviso delle suore di notte, i pianti e gli atti di desolazione dei visitatori che escono senza speranza. Tutte quelle scene dolorose e lugubri della vita d’un ospedale, che in qualunque altra occasione l’avrebbero spaventato.

Le ore, i giorni passano, ed egli è sempre là col suo Tata. Attento ad ogni suo sospiro e ad ogni suo sguardo, passando da momenti di speranza ad altri di sconforto.

Il quinto giorno, improvvisamente, il malato peggiora. Il medico scrolla il capo, come per dire che è finita. Il ragazzo si accascia sulla sedia piangendo. Eppure una cosa lo consola. Malgrado il peggioramento, a lui sembrava che il malato avesse riacquistato un poco lucidità. Guarda il ragazzo sempre più fissamente e con un’espressione crescente di dolcezza, vuole prendere le bevande o le medicine solo da lui, e sempre più spesso muove le labbra, per cercare di parlare. E a volte lo fa in modo così marcato, che il ragazzo gli afferra il braccio con forza, confortato da una speranza improvvisa, e gli dice con intonazione quasi di gioia: – Coraggio, coraggio, Tata, guarirai, ce n’andremo, torneremo a casa con la mamma, ancora un po’ di coraggio!

Sono le quattro di pomeriggio, proprio in un momento in cui il ragazzo ha uno di questi impeti di speranza e tenerezza, quando di là dalla porta più vicina del camerone si sente un rumore di passi, e poi una voce forte, due sole parole: – Arrivederci, suora! – che lo fanno balzare in piedi, con un grido strozzato nella gola. Nello stesso momento entra nel camerone un uomo, con un grosso fagotto[4] alla mano, seguito da una suora.

Il ragazzo gettà un grido acuto e rimane inchiodato al suo posto. L’uomo si volta, lo guarda un momento. Anche lui lancia un grido: – Ciccillo! – e si lancia verso di lui.

Il ragazzo si getta fra le braccia di suo padre. Le suore, gl’infermieri, l’assistente accorrono, e rimangono immobili, pieni di stupore.

– Oh Ciccillo mio! – esclama il padre, baciando e ribaciando il ragazzo. – Ciccillo, figlio mio, cosa è successo? T’hanno portato al letto d’un altro. E io che mi disperavo di non vederti, dopo che mamma mi ha scritto: l’ho mandato. Povero Ciccillo! Da quanti giorni sei qui? Com’è successo questo sbaglio? Io sono guarito in poco tempo. Adesso sto bene, sai! E la mamma? E Concettella? E il bambino, come stanno? Io sto uscendo dall’ospedale. Andiamo via. O signore Iddio! Chi l’avrebbe mai detto!

Il ragazzo riesce appena a dire quattro parole.

– Oh come sono contento! – balbetta. – Come sono contento! Che brutti giorni ho passati!

E non finiva di baciare suo padre.

– Vieni! – gli dice il padre. – Arriveremo a casa stasera. Andiamo. – E lo tira per la mano. Ma lui non si muove. Si volta a guardare il suo malato.

– Ma... vieni o non vieni? – gli domanda il padre, stupito.

Il ragazzo guarda ancora il malato, il quale, in quel momento, apre gli occhi e lo guarda intensamente.

Allora gli esce dall’anima un fiume di parole. – No, Tata, aspetta... ecco... non posso. C’è quel vecchio. Da cinque giorni sono qui. Mi guarda sempre. Credevo che fossi tu. Gli voglio bene. Mi guarda, io gli do da bere, mi vuole sempre accanto. Ora sta molto male. Abbi pazienza, non ho coraggio. Non so, mi fa troppo pena. Ritornerò a casa domani. Lasciami star qui un altro po’, non è bello lasciarlo. Vedi in che maniera mi guarda. Io non so chi sia, ma mi vuole. Morirebbe da solo, lasciami stare qui, caro Tata!

– Bravo, piccolino! – dice l’assistente.

Il padre rimane perplesso, guardando il ragazzo; poi guarda il malato. – Chi è? – chiede.

– Un contadino come voi – risponde l’assistente, – venuto di fuori. È entrato all’ospedale lo stesso giorno che siete entrato voi. L’hanno portato qui privo di sensi, e non ha potuto dire niente. Forse ha una famiglia lontana, dei figli. Forse pensa che vostro figlio sia uno dei suoi.

Il malato guarda sempre il ragazzo. Il padre dice a Ciccillo: – Resta.

– Basta poco tempo. – mormora l’assistente.

– Resta –, ripete il padre. – Tu hai cuore. Io vado subito a casa ad avvisare la mamma. Prendi questo scudo[5] per comprarti qualcosa. Arrivederci, bravo figlio mio. Arrivederci.

Lo abbraccia, lo bacia in fronte e parte.

Il ragazzo torna accanto al letto, e l’infermo sembra di nuovo contento. E Ciccillo ricomincia a fare l’infermiere, senza piangere, ma con la stessa premura, con la stessa pazienza di prima; ricomincia a dargli da bere, a mettere a posto le coperte, a carezzargli la mano, a parlargli dolcemente, per fargli coraggio. Lo assiste per tutta la giornata, lo assiste tutta la notte, gli resta ancora accanto il giorno seguente. Ma il malato si aggrava sempre di più; il suo viso è diventato color violaceo, il suo respiro più affannoso, gli aumenta l’agitazione, gli sfuggono dalla bocca delle grida inarticolate, il gonfiore del viso è diventata mostruoso. Alla visita della sera, il medico dice che non avrebbe superato la notte. E allora Ciccillo raddoppia le sue cure e non lo perde più d’occhio un minuto. E il malato lo guarda, lo guarda ancora, e muove le labbra, appena appena, con un grande sforzo, come se volesse dir qualche cosa. Ogni tanto un’espressione di straordinaria dolcezza attraversa i suoi occhi, che diventano sempre più piccoli e velati. Quando alle finestre si vede la prima luce del giorno, compare la suora. Si avvicina al letto, guarda il malato e va via a rapidi passi. Pochi momenti dopo ricompare con il medico e un infermiere.

– È all’ultimo momento, – dice il medico.

Il ragazzo afferra la mano del malato. Questo apre gli occhi, lo fissa, e li richiude.

Al ragazzo sembra di sentirsi stringere la mano.

– M’ha stretta la mano! – esclama.

Il medico rimane un momento chino sul malato, poi si alza. La suora stacca un crocifisso dalla parete e lo depone sul petto dell’uomo.

– E morto! – grida il ragazzo.

– Vai a casa, figliolo, – dice il medico. – La tua santa opera è compiuta. Vai e abbi fortuna, che la meriti. Dio ti proteggerà. Addio.

La suora che s’era allontanata un momento, torna con un mazzo di viole, tolte da un bicchiere sulla finestra, e lo porge al ragazzo, dicendo: – Non ho altro da darti. Tieni questo per memoria dell’ospedale.

– Grazie, – risponde il ragazzo, – prendendo il mazzetto con una mano e asciugandosi gli occhi con l’altra; – ma ho tanta strada da fare a piedi... se lo porto con me si rovina. – Scioglie il mazzetto e sparpaglia[6] le viole sul letto, dicendo: – Le lascio per ricordo al mio povero morto. Grazie, sorella. Grazie, signor dottore. – Poi, rivolgendosi al morto: – Addio... – Cerca un nome da dargli, e gli torna in mente dal cuore il dolce nome che gli ha dato per cinque giorni: – Addio, povero Tata!

Detto questo, si mette sotto il braccio il suo fagottino di panni, e a passi lenti, sfinito dalla stanchezza, se ne va.

L’alba spunta.

 

 

[1] tata: in alcuni dialetti meridionali significa papà

[2] Ciccillo: diminuitivo di Francesco.

[3] erisipela: infezione acuta della pelle.

[4] fagotto: panni arrotolati.

[5] scudo: moneta d’argento usata in Italia fino alla prima guerra mondiale.

[6] sparpagliare: spargere casualmente, senza un ordine particolare.