Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare è un romanzo dello scrittore cileno Luis Sepúlveda, pubblicato nel 1986. Da questo racconto è stato tratto anche un film di animazione prodotto in Italia nel 1998 intitolato La gabbianella e il gatto.
Riassunto
Kengah è una gabbiana in procinto di covare un uovo. Sta volando ininterrottamente da sei ore sul mare con uno stormo di gabbiani che migrano. Viene avvistato un banco di aringhe e tutti i gabbiani si tuffano in picchiata riemergendo con i pesci nel becco.
Improvvisamente viene lanciato dal capo stormo un segnale di allarme, ma Kengah si trova sott’acqua e non se ne accorge, e quando riemerge e prova a spiccare il volo, viene travolta da un onda densa: la gabbiana è finita in una chiazza di petrolio.
Non riesce più a vedere nulla e deve tuffarsi diverse volte per liberare gli occhi dal petrolio. Guarda il cielo ma non vede più lo stormo. È la legge, lo stormo non può fare nulla per i compagni in mare e deve continuare a volare.
Per riuscire a liberarsi Kengah deve compiere uno sforzo enorme: riesce a raggiungere una zona dove l’acqua è pulita, scuotendosi e tuffandosi riesce a togliere un po’ di petrolio dalle penne, e poi prova a spiccare il volo diverse volte prima di riuscirsi, ma sempre con grande fatica[1].
Esausta riesce a raggiungere un balcone, dove fa conoscenza con il gatto Zorba, al quale chiede tre favori prima di deporre l’uomo: di non mangiare l’uovo, di accudire il cucciolo e di insegnargli a volare.
Zorba corre a chiamare i suoi amici Colonnello e Segretario, racconta loro quanto accaduto, e insieme si recano da Diderot, il gatto più istruito, per chiedere come fare ripulire la gabbiana dal petrolio.
Diderot dice che ci vuole della benzina. I tre gatti riescono a trovare della benzina, ma quando tornano sul balcone tristemente si accorgono che Kengah è morta, e accanto a lei c’è l’uovo che ha deposto poco prima di morire.
Zorba si prende cura dell’uovo finché nasce la gabbianella, che viene chiamata Fortunata, perché era comunque riuscita a salvarsi nonostante la terribile disgrazia capitata a sua madre.
La piccola Fortunata chiama mamma il gatto Zorba, e lui fa tutto il possibile, con l’aiuto degli amici, per accudirla e farla crescere sana e al sicuro.
Rimane il compito più difficile: quello di insegnare al piccolo gabbiano a volare. Ma nonostante i numerosi tentativi eseguiti seguendo le istruzioni che Diderot ha letto sul manuale, la gabbianella non riesce a spiccare il volo. Il Colonello consiglia di sospendere gli esperimenti, perché ha paura che la gabbianella possa completamente perdere la fiducia in sé stessa e non imparare mai più a volare.
Zorba aggiunge che bisogna prendere atto che non sono capaci di insegnare la piccola a volare, e bisogna chiedere l’aiuto degli umani. Ma per far questo Zorba deve essere autorizzato a infrangere il tabù.
I gatti infatti hanno un tabù: divieto assoluto di comunicare con gli umani. Sono capaci di parlare, ma non lo fanno
perché conoscono la reazione degli uomini di fronte a un gatto parlante: lo rinchiuderebbero in un laboratorio e lo torturerebbero per sempre con i loro stupidi esperimenti.
Diderot e gli altri gatti si consultano e alla fine acconsentono a rompere il tabù, ma per una sola volta e solo con l’uomo scelto da loro.
Passano in rassegna numerosi nominativi, e alla fine Zorba suggerisce un uomo che vive con Bubulina. Quest’ultima è una gatta bellissima, della quali tutti gli altri sono innamorati. E l’uomo che vive con lei è un poeta, e anche se non sa volare con le ali, sa come volare con le parole. E così Zorba viene autorizzato a miagolare nella lingua umana con il poeta[2].
Quando il gatto incontra il poeta, questi rimane a bocca aperta nel sentirlo parlare, ma dopo qualche momento di smarrimento, prende un cognac, serve al gatto una scodella di latte, e si siede ad ascoltare con attenzione il racconto di Zorba.
Il poeta crede di poterli aiutare e legge loro una poesia che si intitola il gabbiano, dove si dice che il piccolo cuore di un gabbiano è come quello degli equilibristi, e la cosa per la quale più sospira è la pioggia, che porta quasi sempre il vento, che porta quasi sempre il sole.
Siccome sta per arrivare un temporale, bisogna affrettarsi per cercare di far volare la gabbianello. Così l’umano e tutti i gatti portano la gabbianella molto in alto, sul campanile della chiesa di San Michele, e la pongono sul davanzale. La povera gabbianella è spaventata, ma Zorba la rassicura e le dice di concentrarsi sulla pioggia, che non è altro che acqua, e l’acqua sarà la cosa più importante della sua vita.
La gabbianella a poco alla volta prende coraggio, e dopo aver salutato i suoi amici gatti, dicendo loro che non potrà mai dimenticarli, si lancia nel vuoto nel vuoto e spicca il volo sempre più in alto.
Zorba la guarda allontanarsi fino a sparire e non sa se i suoi occhi gialli sono annebbiati da gocce di pioggia o da lacrime.
Alcuni estratti dal testo originale
[1] Kengah aprì le ali per spiccare il volo, ma l’onda densa fu più rapida e la sommerse completamente.
Quando tornò a galla la luce del giorno era scomparsa, e dopo aver scosso il capo con energia capì che la maledizione dei mari1 le stava oscurando la vista.
Kengah, la gabbiana dalle piume d’argento, tuffò varie volte la testa sott’acqua sinché qualche filo di luce non raggiunse le sue pupille coperte di petrolio.
La macchia vischiosa, la peste nera, le incollava le ali al corpo, così iniziò a muovere le zampe sperando di potersi allontanare rapidamente a nuoto dal centro dell’onda scura.
Con tutti i muscoli tormentati dai crampi per lo sforzo, raggiunse finalmente il limite della macchia di petrolio e sentì il fresco contatto dell’acqua pulita.
Quando, a forza di sbattere le palpebre e di tuffare la testa, riuscì a pulirsi gli occhi, guardò il cielo, ma vide solo alcune nuvole che si frapponevano tra il mare e l’immensità della volta celeste.
I suoi compagni dello stormo del Faro della Sabbia Rossa dovevano volare ormai lontano, molto lontano.
[2] «Mannaggia! È finita la lista» brontolò Colonnello.
«No»
C'è un umano che non è sulla lista» spiegò Zorba.
«Quello che vive con Bubulina».
Bubulina era una bella gatta bianca e nera che passava lunghe ore tra i vasi di fiori di una terrazza.
Tutti i gatti del porto passavano lentamente davanti a lei sfoggiando l'elasticità dei loro corpi, la lucentezza delle loro pellicce accuratamente pulite, la lunghezza dei loro baffi, l'eleganza delle loro code erette nel tentativo di impressionarla, ma Bubulina rimaneva impassibile, e accettava solo l'affetto di un uomo che si piazzava sulla terrazza davanti a una macchina da scrivere.
Era un umano strano, che a volte rideva dopo aver letto quello che aveva appena scritto, e a volte appallottolava i fogli senza nemmeno guardarli.
La sua terrazza era sempre inondata da una musica dolce e malinconica che faceva assopire Bubulina e suscitava profondi sospiri nei gatti che passavano da lì.
«L'umano di Bubulina? Perché proprio lui?» chiese Colonnello.
«Non lo so.
Quell'umano mi ispira fiducia» ammise Zorba.
«L'ho sentito leggere quello che scrive.
Sono belle parole che rallegrano o rattristano, ma non mancano mai di provocare piacere e desiderio di continuare ad ascoltare».
«È un poeta! Si chiama poesia quello che fa. Sedicesimo volume, lettera P, dell'enciclopedia» dichiarò Diderot.
«E cosa ti fa pensare che quell'umano conosca il volo?» volle sapere Segretario.
«Forse non sa volare con ali d'uccello, ma ad ascoltarlo ho sempre pensato che voli con le parole» rispose Zorba.
«Chi è d'accordo che Zorba miagoli con l'umano di Bubulina alzi la zampa destra» ordinò Colonnello.
E fu così che lo autorizzarono a miagolare con il poeta.