La chiave d’oro è una novella di Giovanni Verga che fa parte della raccolta Drammi intimi, pubblicata nel 1884.

 

Riassunto

Nella casa del canonico[1] stanno recitando il rosario, quando all’improvviso si sente una schioppettata nella notte. Subito dopo un altro sparo rimbomba nel vallone. Le donne, spaventate si fanno il segno della croce e il sacerdote, pallido in volto, ordina di fare silenzio.

Poco dopo bussano alla porta e si sente la voce di Surfareddu[2] il camparo[3]. Entra in casa con lo schioppo[4] ancora caldo. Racconta di aver sorpreso dei ladri nella tenuta: questi gli hanno sparato e lui ha risposto al fuoco. Uno dei ladri è stato colpito ed è rimasto a terra nel frutteto. Surfareddu è una persona temuta da tutti, perché nel corso della sua attività di guardiano ha ucciso diversi uomini. Il sacerdote è molto preoccupato per le possibili conseguenze e dice al camparo di andare a casa del fattore[5] senza farsi vedere.

Il giorno dopo il canonico insieme ai contadini si reca nel frutteto e vede l’uomo steso a terra, ormai moribondo. Nel vedere il sacerdote, l’uomo prima di morire, lo accusa di averlo ammazzato per una manciata di olive. Verso mezzogiorno arriva il giudice con gli sbirri[6]. Il giudice è furioso nei confronti del sacerdote, un servo di Dio che somiglia più a un antico barone prepotente, che tiene al servizio uomini come Surfareddu, e che ammazza i cristiani per quattro olive. Il giudice vuole Surfareddu a tutti i costi, vivo o morto, e intima al sacerdote di consegnarlo subito, se non vuol essere accusato come mandante e complice dell’omicidio.

Nel frattempo le donne preparano un tavolo all’ombra degli alberi, e invitano il giudice a sedersi per ripararsi dal caldo e mangiare un boccone. La domestica gli serve un pasto da leccarsi le dita, con maccheroni e intingoli vari. Alla fine il cancelliere stende dieci righe di verbale mentre il giudice beve il caffè. Prima di partire il giudice riceve dal canonico una bottiglia di moscatello, e dalle signore un mazzo di fiori e due panieri di frutta scelta. Nel frattempo il cadavere è stato sotterrato sotto il vecchio ulivo.

Il giorno dopo arriva un messo comunale a dire che il signor giudice aveva perso nel frutteto la chiavetta d’oro dell’orologio. Il canonico risponde di non preoccuparsi, poiché nel giro di pochi giorni l’avrebbero ritrovata. Incarica subito un amico di Caltagirone di comprargli una bella chiave d’oro e la fa recapitare al giudice. Il processo si svolge senza conseguenze per il canonico. Surfareddu rimane in prigione per poco tempo, amnistiato con l’arrivo di Garibaldi. Ritorna libero fino al giorno in cui viene ammazzato in una rissa.

Ogni tanto il canonico ricorda i fatti e racconta di quanto sia stato galantuomo il giudice, per essersi accontentato solo di una chiave, quando avrebbe potuto chiedere l’intero orologio.

Nel frutteto, sotto l'albero vecchio dove è sepolto il ladro di olive, nascono cavoli grossi come teste di bambini.

 

[1] canonico: sacerdote.

[2] Surfareddu: soprannome che in siciliano significa zolfanello, fiammifero.

[3] camparo: guardiano della proprietà agricola.

[4] schioppo: antico fucile che si caricava dalla bocca anteriore della canna.

[5] fattore: persona che si occupa di dirigere la tenuta agricola per conto del proprietario.

[6] sbirri: all’epoca venivano chiamati così gli agenti della polizia.

 

 


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