Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrare loro la penna dell’angelo Gabriele; al posto di questa trova dei carboni, e dice che sono gli stessi carboni con i quali fu arrostito san Lorenzo.

 

Avendo ogni membro della brigata terminato di raccontare la propria novella, Dioneo capì che era il suo turno, per cui, senza troppo aspettare l’invito ufficiale, chiesto di far silenzio a coloro che commentavano la precedente novella di Guido Cavalcanti, incominciò a parlare:

Graziose donne, sebbene io abbia la facoltà di raccontare ciò che più mi aggrada, oggi non voglio allontanarmi dal tema che voi tutte avete adeguatamente trattato, ma seguendo le vostre orme, voglio mostrarvi con quanta abilità uno dei frati di sant’Antonio riuscì ad evitare una brutta figura per un tranello che due giovani gli avevano preparato.

Né vi dovrà dispiacere se, per raccontarvi tutta la storia, mi dilungherò alquanto, poiché, come potete vedere, il sole è ancora in mezzo al cielo.

Certaldo, come voi forse avete potuto udire, è un borgo di Val d’Elsa, situato nel nostro contado che, per quanto piccolo, fu un tempo abitato da uomini nobili e agiati. Poiché in questo borgo i profitti erano buoni, per molto tempo era solito andare ogni anno a raccogliere le elemosine dei gonzi uno dei frati di sant’Antonio, che si chiamava frate Cipolla, accolto volentieri forse più per il nome che per ogni altra devozione, dato che quel terreno produce cipolle famose in tutta la Toscana.

Questo frate Cipolla era un uomo di piccola statura, coi capelli rossi, il viso gioioso e il migliore buontempone del mondo. E oltre a questo, pur non avendo alcuna cultura, era un oratore talmente bravo e pronto, che chi non l’avesse conosciuto, non solo l’avrebbe valutato come un gran retorico, ma l’avrebbe preso per Cicerone o forse Quintiliano, e con quasi tutti quelli della contrada era compare, amico o in cordiali rapporti.

Una volta arrivò, come sua abitudine, una domenica mattina del mese d’agosto, ed essendo tutti gli uomini e le donne dei villaggi vicini venuti alla messa nella canonica, quando gli sembrò il momento opportuno, si fece avanti e disse: «Signori e donne, come voi sapete, è vostra usanza mandare ogni anno ai poveri del baron messere sant’Antonio parte del vostro grano e delle vostre biade, chi poco e chi molto, secondo la propria possibilità e devozione, affinché il beato sant’Antonio protegga i vostri buoi, i vostri asini,  i vostri porci e le vostre pecore; e oltre a questo avete l’abitudine di pagare, specialmente quelli iscritti alla nostra confraternita, una piccola cifra che si paga una sola volta all’anno. Io sono stato inviato dal mio superiore, cioè messer l’abate, a raccogliere queste offerte, e perciò, con la benedizione di Dio, dopo le tre di pomeriggio, quando sentirete suonare le campanelle, verrete qui fuori della chiesa, dove io vi farò la predica così come faccio di solito, e bacerete la croce. E oltre a ciò, poiché so che siete tutti devotissimi del barone messer sant’Antonio, per grazia speciale vi mostrerò una santissima e bella reliquia, che io stesso portai dalle sante terre d’oltremare: una penna dell’angelo Gabriele, che era rimasta nella camera della Vergine Maria quando egli venne a Nazaret ad annunziare». E detto questo si tacque e ritornò alla messa.

Mentre frate Cipolla diceva queste cose, fra la moltitudine di persone in chiesa c’erano due giovani molto astuti, che si chiamavano l’uno Giovanni del Bragoniera e l’altro Biagio Pizzini, i quali, dopo aver alquanto riso tra sé per la reliquia di frate Cipolla, nonostante fossero suoi amici e della sua stessa brigata, si proposero di fargli uno scherzo con la penna. Avendo saputo che frate Cipolla la mattina avrebbe pranzato con un suo amico nella zona del castello, non appena seppero che si era messo a tavola, scesero in strada e andarono nell’albergo dove il frate alloggiava, con questo proposito: Biagio doveva intrattenere il servo di frate Cipolla, mentre Giovanni doveva cercare fra le cose del frate questa penna, di qualunque specie essa fosse, e sottrargliela per vedere cosa il frate avrebbe poi detto al popolo, non trovando più la reliquia.

 

Frate Cipolla aveva un servo, che alcuni chiamavano Guccio Balena, altri Guccio Imbratta e altri ancora Guccio Porco, il quale era così brutto che neanche a Lippo Topo[1] era mai riuscito di farne uno così sconcio. Spesso frate Cipolla ne parlava con la brigata e diceva: «Il mio servo ha nove difetti, che se soltanto uno di questi fosse in Salomone, Aristotele o Seneca, avrebbe la forza di guastare ogni loro virtù, ogni loro giudizio, ogni loro santità. Pensate dunque che uomo deve essere costui che di difetti ne ha nove, e non ha nessuna virtù, nessun giudizio, nessuna santità.

Ed ogni tanto, quando gli domandavano quali fossero questi nove difetti, mettendo le parole in rima rispondeva: «egli è tardo[2], sugliardo[3] e bugiardo; negligente, disubbidiente e maldicente; trascutato[4], smemorato e scostumato, oltre ad altri piccoli difetti che è meglio lasciar perdere. Ma la cosa più ridicola e che in ogni luogo vuole prendere moglie e casa in affitto, e avendo la barba lunga, nera e unta, gli sembra di essere così bello e piacente, che è convinto che tutte le donne che lo vedono si innamorino di lui, e se lo lasciassi libero, correrebbe dietro a tutte le femmine rischiando di perdere ogni freno.

In verità mi è di grande aiuto[5], tanto che nessuno può parlare con me privatamente senza che lui ascolti la sua parte di conversazione. E se qualcuno mi fa una domanda, ha tanta paura che io non sappia rispondere, che immediatamente interviene rispondendo sì o no, secondo il suo parere.»

Frate Cipolla, lasciando l’albergo, gli aveva raccomandato di assicurarsi che nessuno toccasse le sue cose, specialmente le bisacce, dove erano contenute le cose sacre. Ma Guccio Imbratta era più desideroso di stare in cucina, di quanto un usignolo di stare sui verdi rami, specialmente quando vedeva che c’era qualche serva. Avendo vista nella cucina dell’oste una serva grassa, grossa, piccola e mal fatta, con un paio di poppe che sembravano due cestoni di letame e con un viso che sembrava dei Baronci[6], tutta sudata, unta e affumicata, lasciata la camera di frate Cipolla aperta con tutte le sue cose incustodite, si fiondò in cucina così come un avvoltoio si getta su una carogna.

Anche se era ancora il mese di agosto, si mise a sedere vicino al fuoco, e cominciò a parlare con la serva, di nome Nuta, e a dire di essere un nobile per procura[7], che aveva più di millantanove[8] fiorini, senza considerare i fiorini che doveva dare ad altri, che erano di più anziché di meno[9], e che egli sapeva fare e dire tante di quelle cose, che neanche il suo padrone avrebbe potuto eguagliarlo.

E senza badare al suo cappuccio, sul quale c’era tanto di quell’untume da poterci condire il calderone d’Altopascio[10], e al suo farsetto rotto e rappezzato, smaltato di sudiciume intorno al collo e sotto alle ascelle, con più macchie e colori dei tessuti tartari o indiani, e alle sue scarpette tutte rotte e alle calze sdrucite, le disse, quasi fosse stato il signore di Ciastiglione[11], che voleva rivestirla e rimetterla in sesto, e liberarla da quella schiavitù che la costringeva a star soggetta ad altri, e anche senza grandi ricchezze avrebbe potuto darle la speranza di una vita migliore e molte altre cose. Parole che per quanto pronunciate affettuosamente, venivano convertite in vento, e come nella maggior parte delle sue imprese, si risolsero in niente.

 

Dunque i due giovani trovarono Guccio Porco occupato con Nuta, e di questo ne furono contenti, perché avevano risparmiato metà della fatica, e dato che non c’era alcun impedimento, entrarono nella camera di frate Cipolla, che avevano trovato aperta. Il primo posto dove cercarono fu la bisaccia nella quale c’era la penna. Una volta aperta, trovarono un una piccola cassettina avvolta in un velo di seta, e una volta aperta anche questa, trovarono la penna di una coda di pappagallo, che doveva essere proprio quella che il frate aveva promesso di mostrare ai certaldesi.

A quei tempi quasi nessuno era in grado di riconoscere una penna di pappagallo, perché le raffinatezze d’Egitto non erano ancora arrivate in Toscana, se non in piccole quantità, come poi invece sono arrivate in abbondanza, con la rovina di tutta l’Italia[12]. E anche se in alcune zone erano poco conosciute, in quella contrada non erano conosciute per niente, anzi, siccome perdurava ancora la rozza onestà degli antichi, non solo gli abitanti non avevano mai visto pappagalli, ma la maggior parte di loro non ricordava neanche di averne mai sentito parlare.

I due giovani, contenti di aver trovato la penna, la presero e, per non lasciare la cassetta vuota, la riempirono con alcuni carboni trovati in un angolo della camera. La richiusero e misero ogni cosa così come l’avevano trovata. Se ne andarono senza essere visti e cominciarono ad aspettare quello che frate Cipolla avrebbe detto quando avrebbe trovato i carboni al posto della penna.

 

Le persone ingenue che erano nella chiesa, udendo che avrebbero visto la penna dell’angelo Gabriele nel pomeriggio, finita la messa, se ne tornarono a casa, e passando parola da vicino a vicino e da comare a comare, appena finito di pranzare, si accalcarono in massa nella zona del castello, al punto che a malapena vi trovarono posto, aspettando desiderosi di vedere questa penna.

Frate Cipolla, che aveva pranzato bene e poi dormito alquanto, poco dopo le tre di pomeriggio si alzò, e accorgendosi della gran moltitudine di contadini venuta per vedere la penna, mandò a dire a Guccio Imbratta di venire fin lassù con le campanelle e di portare le sue bisacce. Guccio, dopo che fu sradicato con fatica dalla cucina e dalla Nuta, con fatica andò lassù con le cose richieste, dove arrivò ansimante, con il ventre gonfiato per la troppa acqua bevuta, e per ordine di frate Cipolla andò sulla porta della chiesa e cominciò a suonare le campanelle.

Quando tutto il popolo fu radunato, frate Cipolla, senza verificare che le sue cose fossero in ordine, cominciò la predica, e per raggiungere il suo obiettivo disse molte parole. Quando arrivò il momento di mostrare la penna dell’angelo Gabriele, fece prima la confessione con grande solennità, fece accendere due ceri, e aprendo con grande cura il panno di seta dopo essersi tolto il cappuccio, tirò fuori la cassetta. Prima pronunciò alcune parolette di lode ed elogio sull’angelo Gabriele e sulla sua reliquia, e infine aprì la cassetta.

Quando vide che questa era piena di carboni, non sospettò che fosse opera di Guccio Balena, perché non lo riteneva capace di tanto, né lo maledisse per non aver sorvegliato che altri non ci mettessero le mani, ma bestemmiò tacitamente se stesso, per avergli affidato la sorveglianza delle sue cose, pur sapendo quanto fosse negligente, disubbidiente, trascurato e smemorato.

Ma poco dopo, senza cambiare espressione, alzato il viso e le mani al cielo, disse in modo da essere udito da tutti: «O Iddio, lodata sia sempre la tua potenza!» Poi, richiusa la cassetta, rivolgendosi al popolo disse: «Signori e donne, voi dovete sapere che, quando ero ancora molto giovane, fui mandato dal mio superiore da quelle parti dove sorge il sole, e fui incaricato con il preciso ordine di cercare tanto fino a trovare i privilegi del Porcellana[13], che, sebbene non costasse nulla farli approvare, sono molto più utili ad altri che a noi. Per cui mi sono messo in cammino, partendo da Vinegia[14] e passando per il Borgo di Greci, e quindi cavalcando per il reame del Garbo e per Baldacca, arrivai in Parione, e dopo un po’ di tempo arrivai assetato in Sardigna. Ma perché vi sto descrivendo tutti questi paesi che ho attraversato?

Passato il braccio di San Giorgio, capitai in Truffia e in Buffia[15], paesi molto abitati e con grandi popoli. Quindi arrivai in terra di Menzogna, dove si trovano molti dei nostri frati e di altri ordini religiosi, i quali, per amore di Dio, schifavano la povertà curandosi poco delle fatiche altrui, cercavano profitto dove ne vedevano la possibilità, e non spendevano alcuna moneta che non fosse falsa. Quindi passai in terra d’Abruzzi, dove gli uomini e le donne vanno con gli zoccoli su per i monti, rivestendo i porci con le loro stesse budella[16], e poco più in là trovai gente che portava il pane nelle mazze e il vino nelle sacche[17], e da qui giunsi alle montagne dei baschi, dove tutte le acque scorrono all’ingiù. E in breve tanto mi addentrai che giunsi addirittura in India Pastinaca, dove, vi giuro sull’abito che porto addosso, vidi volare i pennati[18], cosa incredibile per chi non li avesse mai visti, e di questo mi è testimone Maso del Saggio[19], grande mercante che trovai là, a schiacciare noci e vendere i gusci al dettaglio.

Ma non riuscendo a trovare quello che cercavo, e siccome da quel punto in poi si procede solo via mare, me ne tornai indietro, e giunsi a quelle terre sante dove d’estate il pane freddo costa quattro denari, e il caldo invece non costa niente. E qui trovai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace[20], degnissimo patriarca di Gerusalemme. Il quale, per rispetto dell’abito che ho sempre portato del baron messer sant’Antonio, volle che io vedessi tutte le reliquie che aveva con sé, e furono tante che, se io le volessi raccontare tutte, non ne verrei a capo che in chissà quanto tempo, comunque per non lasciarvi delusi, ve ne dirò alcune.

Per prima cosa mi mostrò il dito dello Spirito Santo, così intero e saldo come non lo era mai stato, il ciuffetto del serafino che apparve a san Francesco, una delle unghie dei Cherubini, una delle coste del Verbum-caro-fatti-alle-finestre[21], i vestiti della Santa Fede cattolica, alcuni raggi della stella che apparve ai tre Magi in oriente, un’ampolla con il sudore di san Michele quando combatté con il diavolo, la mascella della Morte di san Lazzaro e altre ancora.

E poiché generosamente gli feci copia delle piagge di Monte Morello in volgare e di alcuni capitoli del Caprezio[22], che lui aveva cercato a lungo, mi rese partecipe delle sue sante reliquie. Mi donò uno dei denti della santa Croce, in un’ampolletta un po’ del suono delle campane del tempio di Salomone, la penna dell’angelo Gabriele, della quale vi ho già parlato, e uno dei zoccoli di san Gherardo da Villamagna[23], (che poco tempo fa a Firenze donai a Gherardo di Bonsi[24], il quale ha in lui una grandissima devozione), e mi diede i carboni con i quale il beatissimo martire san Lorenzo fu arrostito, cose che devotamente portai con me e le ho tutte.

A dire il vero il mio superiore non ha mai tollerato che io le mostrassi, finché non fosse certificata la loro autenticità, ma ora che il padre superiore, per certi miracoli compiuti dalle reliquie, e per le lettere ricevute dal Patriarca, è sicuro della loro autenticità, mi ha autorizzato a mostrarle; ma io, siccome ho paura ad affidarle ad altri, le porto sempre con me.

La verità è che io porto la penna dell’angelo Gabriele, affinché non si rovini, in una cassetta, e i carboni con i quali fu arrostito san Lorenzo in un’altra. Le due cassette si somigliano talmente che spesso scambio l’una per l’altra, e ora è successo proprio questo: credendo di aver portato la cassetta dove era la penna, ho portato invece quella dove sono i carboni. Ma non ritengo sia stato un errore, anzi mi sembra certo sia stata la volontà di Dio e Egli stesso abbia posto la cassetta dei carboni nelle mie mani, ricordandomi proprio poco fa che la festa di san Lorenzo è fra due giorni. E perciò, volendo Iddio che io, col mostrarvi i carboni coi quali il santo fu arrostito, riaccenda nelle vostre anime la devozione che in lui dovete avere, non mi fece prendere la penna, ma i benedetti carboni spenti dagli umori[25] di quel santissimo corpo.

E perciò, figliuoli benedetti, toglietevi i cappucci e avvicinatevi per vederli. Ma prima voglio che voi sappiate che a chiunque verrà disegnata la croce con questi carboni, per tutto l’anno può vivere sicuro che non verrà bruciato dal fuoco senza accorgersene[26].

E dopo aver detto questo, cantando una lode di san Lorenzo, aprì la cassetta e mostrò i carboni. E dopo che la stolta moltitudine li ebbe guardati per un po’ con ammirazione e reverenza, una grandissima calca si appressò a frate Cipolla, elargendo offerte migliori del solito, e ognuno pregava di essere segnato con i carboni.

Per cui frate Cipolla, presi i carboni in mano, cominciò a tracciare le croci più grandi che potevano starci sopra i camiciotti bianchi, sopra i farsetti e sopra i veli delle donne, affermando che quanto più i carboni si consumavano nel fare quelle croci, tanto più ne ricrescevano nella cassetta.

E in questo modo, essendo tutti i certaldesi stati crociati[27] con suo grandissimo profitto, con la rapida trovata riuscì a schernire coloro che volevano schernirlo togliendogli la penna. Questi erano presenti alla predica e avendo udito il rimedio che aveva escogitato, e quanto l’avesse presa alla lontana e con quali parole, avevano riso tanto da credere di smascellarsi. E una volta che la folla si era dispersa, andarono da lui, con la maggiore allegria del mondo, gli rivelarono ciò che avevano fatto e gli restituirono la sua penna, che l’anno seguente gli fece guadagnare non meno dei carboni in quella giornata.

 

[1] Lippo Topo: un proverbiale pittore famoso per le sue figure umane grottesche.

[2] tardo: stupido.

[3] sugliardo: lercio, sudicione.

[4] trascutato: incrocio di tracotante e trascurato: di una trascuratezza sfacciata.

[5] mi è di grande aiuto: è detto in senso ironico.

[6] I Baronci: una famiglia di Firenze proverbialmente brutta, citata anche in altre novelle del libro.

[7] nobile per procura: non esiste la nobiltà per procura, è solo una delle tante stupidaggini che Guccio racconta.

[8] millantanove: un numero inesistente che sottolinea quanto Guccio sia un millantatore.

[9] senza... meno: praticamente sta dicendo che i fiorini che deve restituire superano quelli  che possiede, ma lo dice come se il debito fosse una ricchezza aggiuntiva.

[10] il calderone d’Altopascio: un calderone enorme dell'abbazia di Altopascio , dove si cucinava la minestra per i poveri due volte a settimana.

[11] Ciastiglione: Châtillon

[12] rovina di tutta Italia: Boccaccio ritiene che l’eccessiva raffinatezza abbia portato alla corruzione dei costumi.

[13] Privilegi di Porcellana: documenti che autorizzano il commercio dell’ospedale fiorentino di San Filippo.

[14] Vinegia: è il nome di una strada di Firenze, come più avanti Borgo de' Greci, Garbo, Baldacca, S. Giorgio, Parione, Sardigna. Frate Cipolla ironicamente nomina una serie di località di Firenze, facendoli passare come paesi lontani: Grecia, Algarve (Garbo), Bagdad (Baldacca), Sardegna

[15] Truffia e Buffia: nomi fantasiosi di paesi abitati da truffatori e beffatori.

[16] rivestendo...budella: insaccare la carne di maiale. Il frate con la sua oratoria riesce a trasformare un evento assolutamente ordinario, quello di produrre dei salumi, con qualcosa di assolutamente straordinario, come rivestire i maiali con le loro budella.

[17] pane... sacche: ciambelle di pane infilate nei bastoni e vino negli otri. Ancora una volta l’ambiguità del linguaggio trasforma l’ordinaria banalità in un mistero straordinario.

[18] pennato: può significare “coltellaccio per potare” oppure “pennuto” cioè uccello. Il frate gioca sull’ambiguità della parola.

[19] Maso del Saggio: celebre burlone citato in altre novelle.

[20] Nonmiblasmete Sevoipiace: non mi biasimate per piacere.

[21] Verbum-caro-fatti-alle-finestre: storpiatura della frase «Verbum caro factum est» che si trova all’inizio del Vangelo di Giovanni (1, 14: «Il Verbo si fece carne»).

[22] gli feci copia... Caprezio: espressioni priva di senso e difficile da interpretare. Il Monte Morello è una montagna a nord di Firenze (e le piagge sono i “pendii”); Caprezio è un nome inventato: frate Cipolla ripaga le gentilezze del patriarca di Gerusalemme dandogli una copia di due misteriose operette in volgare. Ma potrebbe esserci un allusione sessuale, (“fare copia” vuol dire anche “godere carnalmente” e Monte Morello e Caprezio potrebbero essere nomi burleschi di parti del corpo maschile), o forse l’allusione a qualche detto popolare (l’espressione «dare la testa di Monte Morello» voleva dire “farsi illusioni”).

[23] Gherardo da Villamagna: uno dei primi seguaci di san Francesco.

[24] Gherardo di Bonsi: priore di Firenze nel 1317

[25] umori: liquidi corporei.

[26] bruciato... accorgersene: un altro sfacciato gioco di parole: se uno prende fuoco se ne accorge, ma il frate fa sembrare questo un miracolo dei carboni.

[27] crociati: con la croce disegnata sui vestiti; allusione ironica alle Crociate.

 

 


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