Il conte zio chiede al padre provinciale l’allontanamento di padre Cristoforo

Il conte zio decide di rivolgersi al padre provinciale per ottenere l’allontanamento di padre Cristoforo dal convento di Pescarenico. I due uomini si conoscono in modo superficiale e fra di loro c’è un rapporto basato sulla reciproca riverenza, come spesso avviene fra uomini potenti. Un giorno il conte zio invita il padre provinciale a pranzo, insieme a vari commensali scelti con molta cura: personaggi titolati e importanti, che con la loro sprezzante aria di sicurezza, riescono in ogni momento ad imprimere l’idea della superiorità e della potenza. Alla fine del banchetto il conte zio invita il padre ad appartarsi con lui in un'altra stanza, per parlargli in privato.

Entra subito in argomento e chiede se conosce padre Cristoforo. Il prelato dice di sì, e il conte zio inizia subito a descrivere il frate come un uomo turbolento, che mette in cattiva luce tutta la grande famiglia dei cappuccini. Accusa il frate di aver protetto Lorenzo Tramaglino, uno dei capi dei tumulti di Milano, e ricorda il suo passato burrascoso.

Tuttavia il prelato non si scompone e si limita a dire di voler accertare i fatti. A questo punto il conte zio solleva la questione del conflitto tra frate Cristoforo e suo nipote Don Rodrigo, invitando il prelato a spegnere al più presto quel conflitto, che potrebbe avere conseguenza molto preoccupanti, e suggerisce di trasferire frate Cristoforo.

Il religioso si mostra incline ad accettare la soluzione del trasferimento, per evitare ulteriori scandali, e chiede in cambia una prova chiara dell’amicizia di Don Rodrigo per l’ordine dei cappuccini.

Qualche giorno dopo un cappuccino di Milano arriva al convento di Pescarenico e consegna l’ordine per padre Cristoforo di recarsi a Rimini. Il frate parte il mattino dopo accompagnato da un altro cappuccino.

 

Don Rodrigo decide di chiedere aiuto all’innominato

Nel frattempo Don Rodrigo è sempre più convinto di dover chiedere l’intervento dell’Innominato. Questo personaggio è così chiamato perché l’autore non è in grado di indicarne né il nome, né il titolo. Si sa soltanto che si tratta di un uomo dalla fama terribile, un bandito molto ricco e molto potente, responsabile di numerosi delitti spietati. Fin dall’adolescenza ha gareggiato con i tiranni di Milano e della sua regione, riuscendo a vincere e a renderli suoi amici subordinati. Nel corso degli anni molti signori hanno chiesto il suo aiuto per compiere delle imprese criminose, e lui l’ha sempre generosamente concesso. Ma con il tempo e con l’accrescersi della sua oscura fama, i suoi potenti amici non sono più riusciti a proteggerlo dalla giustizia, e alla fine viene bandito dallo Stato e costretto a lasciare Milano.

Il giorno in cui lascia la città, l’attraversa a cavallo e a suon di tromba, con un seguito di cani e quando passa davanti al palazzo del governatore, verso cui lancia i suoi insulti infamanti. Durante il periodo di bando continua con le sue attività criminali, e qualche tempo dopo ritorna nello Stato, non è ben chiaro se per revoca del bando o semplicemente perché l’innominato se ne fa beffa.

Tuttavia non si stabilisce a Milano ma in un castello al confine con il Bergamasco, in un territorio appartenente alla Repubblica di Venezia, del quale ha il pieno controllo, e dove continua con le sue sinistre attività.

Il palazzotto di don Rodrigo dista circa sette miglia dal castello dell’innominato, e il signorotto conosce molto bene il potente bandito, dal quale, in cambio di imprecisati servizi e favori, ha ricevuto numerosi aiuti per poter esercitare la tirannia sul proprio territorio. Tuttavia il nobile  fa tutto il possibile per tenere nascosto il legame che ha con un personaggio così malfamato, per cercare di mantenere una certa reputazione.

Così una mattina don Rodrigo lascia il suo palazzo a cavallo, e insieme al Griso e altri quattro bravi armati fino ai denti, si dirige al castello dell’innominato.

 

 


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