PUNTI SALIENTI

Dialogo fra il cardinale Borromeo e don Abbondio, alla fine del quale il curato riconosce i propri errori e si pente. Lucia confessa alla madre il suo voto di castità e la prega di comunicare a Renzo di mettersi il cuore in pace. Renzo ha fatto perdere le sue tracce, ma in realtà suo cugino Bortolo lo ha fatto mandato a lavorare in altro filatoio sotto falso nome.

 

Il dialogo fra il cardinale Borromeo e don Abbondio

Il cardinale Borromeo continua a rimproverare don Abbondio, perché vuole fargli capire di aver mancato al suo dovere, ma ciò che è veramente grave, per aver cercato futili pretesti, lasciando in questo modo i due giovani all’oscuro del pericolo che incombeva su di loro.

Il curato è irritato dal fatto che il cardinale non ha esitato ad abbracciare un bandito responsabile dei più feroci delitti, mentre lui è messo sotto accusa per aver detto una piccola bugia, solamente per salvarsi la vita[1].

Don Abbondio chiede cosa avrebbe dovuto fare e il cardinale risponde che avrebbe dovuto celebrare il matrimonio e informare subito il suo superiore, che sarebbe immediatamente intervenuto per proteggere lui e i giovani, e avrebbe saputo moderare la spavalderia del signorotto. Secondo il cardinale i prepotenti minacciano più di quanto siano realmente capaci, facendo affidamento sulla credulità e la paura[2].

Don Abbondio nota con un certo rammarico che Perpetua gli aveva dato proprio gli stessi consigli, ma nello stesso tempo con un tono piuttosto stizzoso dice che è lui quello che ha subito le minacce dei bravi, ed è fin troppo facile per il cardinale parlare senza mai essersi trovato nella stessa situazione[3]. Però subito si pente delle sue parole e si aspetta di essere pesantemente rimproverato. Invece il cardinale si rivolge a lui con tono bonario, esortando a riflettere sulla sofferenza degli altri e a rimediare ai propri errori non appena sarà possibile. Il curato rimane in silenzio e comincia a riflettere seriamente sulle parole del suo superiore, e per la prima volta considera il male provocato agli altri, che non aveva mai considerato prima perché troppo impaurito per il male che avrebbe potuto subire lui stesso[4]: è il momento del pentimento di don Abbondio.

 

Lucia confessa a sua madre il voto di castità

La mattina successiva Lucia viene accompagnata nella villa di donna Prassede, mentre Federigo riceve una lettera dell’Innominato con cento scudi in dote per Lucia e la promessa di essere sempre al suo servizio. Il cardinale consegna la somma ad Agnese che si reca subito dalla figlia per darle la buona notizia. Allora la ragazza, in lacrime, confessa a sua madre del voto di castità fatto alla Madonna e che quindi non può più sposarsi.

Agnese rimane costernata da questa rivelazione, e inizialmente è tentata di rimproverare la figlia per essere stata troppo precipitosa, ma dopo il racconto che Lucia fa della sua prigionia e della disperazione che ha provato, riesce a comprenderla e a giustificarla. Lucia dice di essere molto dispiaciuta per non averlo detto prima e lascia a sua madre metà della dote da consegnare a Renzo a risarcimento del sacrificio che dovrà fare, sperando che riesca a mettersi l’animo in pace. La donna comprende il dolore della figlia, e gli promette che provvederà a farsi carico delle sue richieste.

 

La scomparsa di Renzo

Nel frattempo di Renzo non se ne sa più niente e sembra essere scomparso nel nulla. Le chiacchiere dicono che per un po’ ha lavorato nzel bergamasco da suo cugino Bortolo, ma poi è andato via, non si sa dove, e a riguardo arrivano solo voci contrastanti. In realtà Renzo viene ricercato anche nel Bergamasco, e suo cugino Bortolo, per proteggerlo, lo ha fatto assumere in un altro filatoio con il nome di Antonio Rivolta, e poi è lui stesso a mettere in giro la voce della scomparsa del parente.

Tutto questo è successo perché il governatore dello Stato di Milano, don Gonzalo Fernandez de Cordoba ha fatto la voce grossa con il residente di Venezia in Lombardia, accusando la repubblica di Venezia di offrire rifugio nel bergamasco a un famigerato capo-rivolta, fomentatore di disordini pubblici quale Lorenzo Tramaglino. Ma a don Gonzalo non importa nulla di Renzo, e le motivazioni di quel finto interessamento sono legate ad un serie di circostanze che l’autore spiega nel capitolo successivo[5].

 

 

Alcuni estratti significativi del capitolo 26

 

[1] «Ecco come vanno le cose» diceva ancora tra sé don Abbondio: «a quel satanasso» e pensava all’innominato «le braccia al collo; e con me, per una mezza bugia, detta a solo fine di salvar la pelle, tanto chiasso. Ma sono superiori; hanno sempre ragione. È il mio pianeta, che tutti m’abbiano a dare addosso; anche i santi». E ad alta voce, disse: «ho mancato; capisco che ho mancato; ma cosa dovevo fare, in un frangente di quella sorte?»

 

[2]  «Non sapevate che, se l’uomo promette troppo spesso più che non sia per mantenere, minaccia anche non di rado, più che non s’attenti poi di commettere? Non sapevate che l’iniquità non si fonda soltanto sulle sue forze, ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui?”».

 

[3] «Gli è perché le ho viste io quelle facce» scappò detto a don Abbondio; «le ho sentite io quelle parole. Vossignoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe esser ne’ panni d’un povero prete, e essersi trovato al punto». Appena ebbe proferite queste parole, si morse la lingua; s’accorse d’essersi lasciato troppo vincere dalla stizza, e disse tra sé: «ora vien la grandine». Ma alzando dubbiosamente lo sguardo, fu tutto maravigliato, nel veder l’aspetto di quell’uomo, che non gli riusciva mai d’indovinare né di capire, nel vederlo, dico, passare, da quella gravità autorevole e correttrice, a una gravità compunta e pensierosa.

 

[4] Don Abbondio stava zitto; ma non era più quel silenzio forzato e impaziente: stava zitto come chi ha più cose da pensare che da dire. Le parole che sentiva, eran conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d’una dottrina antica però nella sua mente, e non contrastata. Il male degli altri, dalla considerazion del quale l’aveva sempre distratto la paura del proprio, gli faceva ora un’impressione nuova.

 

[5] Non si creda però che don Gonzalo, un signore di quella sorte, l’avesse proprio davvero col povero filatore di montagna... o che lo credesse un soggetto tanto pericoloso, da perseguitarlo anche fuggitivo, da non lasciarlo vivere anche lontano, come il senato romano con Annibale. Don Gonzalo aveva troppe e troppo gran cose in testa, per darsi tanto pensiero de’ fatti di Renzo; e se parve che se ne desse, nacque da un concorso singolare di circostanze, per cui il poveraccio, senza volerlo, e senza saperlo nè allora nè mai, si trovò, con un sottilissimo e invisibile filo, attaccato a quelle troppe e troppo gran cose.

 

 


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