L’Innominato incontra il cardinale Borromeo
Il cappellano crocifero con aria preoccupata riferisce al cardinale Borromeo che l’Innominato chiede di essere ricevuto. Il cardinale mostra un certo entusiasmo per questa richiesta e ordina di farlo entrare subito, nonostante le obiezioni del cappellano. Quest’ultimo obbedisce e accompagna l’Innominato nella stanza del cardinale, passando attraverso una piccola folla che osserva con grande stupore.
Il cardinale lo accoglie cordialmente e poi ordina al cappellano di uscire, per rimanere da solo con il suo ospite. L’Innominato rimane in silenzio, combattuto tra la vergogna di trovarsi in una situazione per lui del tutto nuova, e il desiderio di mettere fino al suo tormento[1].
Il cardinale intuisce l’angoscia del tiranno e si rivolge a lui manifestando una grande gioia per quella visita inaspettata. Gli parla del pentimento, del perdono divino, della possibilità di compiere grandi opere al servizio di Dio e raggiungere così l’agognata pace interiore[2].
Il pentimento dell’Innominato
La commozione dell’Innominato diventa sempre più forte fino a scoppiare in lacrime ed abbracciare il religioso, manifestando in modo evidente il pentimento e la conversione. Una volta provato un senso di pace interiore, pensa subito a come mettere fine alle terribili imprese in corso, e confessa al cardinale del rapimento di Lucia.
Il cardinale si adopera immediatamente per liberare la ragazza e farla ricongiungere con i suoi familiari. Chiede di convocare il parroco del paese e don Abbondio, che si trova nella stanza insieme agli altri sacerdoti. Prega il primo sacerdote di trovare una brava donna in grado di consolare Lucia durante la liberazione e chiede a don Abbondio di unirsi alla missione, in quanto parroco di Lucia, per darle conforto; ordina inoltre di mandare un uomo a prendere Agnese al paesello.
Don Abbondio, terrorizzato dalla presenza dell’Innominato, e poco convinto della sua conversione, tenta di evitare in tutti i modi di unirsi alla comitiva, ma alla fine, suo malgrado, è costretto a cedere.
Verso il castello dell’Innominato per liberare Lucia
Il gruppetto di persone si mette in cammino: Don Abbondio e l’Innominato a dorso di mulo, mentre la donna scelta dal parroco del paese viaggia su una lettiga. Passano davanti alla chiesa, dove si è raccolta una folla che ha saputo della conversione del tiranno, e si accalcano tutto intorno per riuscire a vedere l’uomo pentito. L'Innominato si toglie il cappello e si inchina di fronte a quelle persone. La stessa cosa fa il curato che si rammarica di non essere insieme agli altri parroci che cantano in chiesa.
Lungo il viaggio don Abbondio è afflitto da pensieri sgradevoli. Pensa che il pentimento dell’Innominato non sia del tutto sincero ma non osa rivolgergli la parola per metterlo alla prova. Si lamenta di tutti quelli che gli hanno turbato il suo quieto vivere, persone come don Rodrigo, che è talmente ricco da poter vivere in pace, ma invece pensa solo a molestare le donne[3]; l’Innominato, che ha commesso ogni genere di crimine e avrebbe potuto pentirsi senza tanti schiamazzi; e lo stesso Federigo, che ha subito accolto a braccia aperte il bandito senza neanche assicurarsi che il suo pentimento fosse sincero.
Alla fine la comitiva arriva al castello dell’Innominato, dove i bravi guardano stupefatti il loro padrone, uscito di mattina in un modo insolito e che adesso ritorna in compagnia di persone che mai si sarebbero aspettati. L’Innominato scende dalla mula, aiuta a scendere la donna e don Abbondio, e li conduce nella stanza dove è prigioniera Lucia.
Alcuni estratti significativi del capitolo 23
[1] L’innominato, ch’era stato come portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne cercava.
[2][2] «E che?» riprese, ancor più affettuosamente, Federigo: «voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?»
«Una buona nuova, io? Ho l’inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio.»
«Che Dio v’ha toccato il cuore, e vuol farvi suo,» rispose pacatamente il cardinale.
«Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?»
«Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?»
[3] Quel matto birbone di don Rodrigo! Cosa gli mancherebbe per esser l’uomo il più felice di questo mondo, se avesse appena un pochino di giudizio? Lui ricco, lui giovine, lui rispettato, lui corteggiato: gli dà noia il bene stare; e bisogna che vada accattando guai per sé e per gli altri. Potrebbe far l’arte di Michelaccio; no signore: vuol fare il mestiere di molestar le femmine: il più pazzo, il più ladro, il più arrabbiato mestiere di questo mondo; potrebbe andare in paradiso in carrozza, e vuol andare a casa del diavolo a piè zoppo.