Le notizie arrivano al paesello di Lucia

Le notizie sulla conversione dell’Innominato ad opera del cardinale Borromeo, con la conseguente liberazione di Lucia hanno una vasta eco in tutto il territorio di Lecco, data l’importanza e la fama dei personaggi coinvolti.

Le trame di don Rodrigo sono state scoperte e diventate oggetto di discussione pubblica, per cui sul signorotto si riversa l’odio di tutto il paese, e non vengono risparmiati neanche il podestà e l’avvocato azzecca-garbugli. Se i primi due incutono timore, e nessuno ha il coraggio di esprimere disprezzo in loro presenza, l’avvocato invece  viene insultato pesantemente per strada da parte dai paesani, al punto che è costretto a non farsi più vedere in giro per qualche tempo[1].

Don Rodrigo rimane rintanato nel suo palazzo per due giorni, e il terzo decide di andare a Milano, non tanto per le chiacchiere del paese, quanto per la notizia dell’imminente arrivo del cardinal Borromeo. Ha paura di essere costretto dal conte zio a qualche dimostrazione pubblica, cosa che vuole evitare a tutti i costi.

Federigo Borromeo arriva al paese e viene accolto con grande gioia da tutti i cittadini, tiene un breve discorso in chiesa e poi si ritira nella casa di don Abbondio. Il cardinale chiede notizie di Renzo e si vuole accertarsi che Lucia possa vivere al sicuro e decide di far venire lei e la madre il giorno dopo. Quando Federigo si congeda dal curato, questi tira un sospiro di sollievo e crede che Agnese non abbia detto nulla circa il mancato matrimonio.

 

Donna Prassede offre il suo aiuto a Lucia

Nel frattempo Lucia ed Agnese sono ospiti in casa del sarto e sono riuscite a recuperare un po’ di tranquillità e con i padroni di casa si è creato un legame di affettuosa amicizia.

La ragazza passa gran parte del suo tempo a cucire, mentre la madre sogna di vederla finalmente sposata con Renzo, senza immaginare che tali discorsi creano una gran pena nell’animo di Lucia, che non ha detto nulla sul suo voto di castità.

Non molto lontano dalla casa del sarto, sono arrivati in villeggiatura due nobili Milanesi, don Ferrante e donna Prassede. Quest’ultima è una donna che sente il bisogno di fare del bene, non tanto per grandezza d’animo, quanto per capriccio personale, e spesso utilizza mezzi sconvenienti e dedica attenzioni a chi non vuole, al punto da apparire ridicola e grottesca[2]. La donna ha sentito parlare delle avventure di Lucia, e un giorno invita lei e sua madre a casa sua, e manda una carrozza a prendere le due donne. La sua intenzione è di offrire protezione alla fanciulla, ospitandola in casa sua a Milano, ma segretamente pensa di doverla rimettere sulla retta via, poiché è convinta che Lucia non sia quella brava persona che tutti credono e le sue disgrazie siano una conseguenza della punizione divina per essersi invaghita di un delinquente come Renzo[3].

Tuttavia donna Prassede riesce con la sua gentilezza a convincere Lucia ad affidarsi alla sua protezione e fa preparare una lettera per il cardinale Borromeo.

Lucia e Agnese ritornano al paesello e consegnano la lettera al cardinale che acconsente al proposito della nobil donna.

 

Don Abbondio viene convocato dal cardinale

Terminata la messa mattutina don Abbondio viene convocato dal cardinale che gli chiede conto del suo rifiuto a celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia. Il curato cerca di essere evasivo, ma alla fine è costretto ad ammettere di essere stato minacciato e di aver temuto per la propria vita, facendo attenzione a non nominare mai don Rodrigo.

Borromeo ammonisce severamente il curato, ricordandogli i doveri del sacerdozio, che non garantisce alcuna incolumità, anzi i parroci sono come agnelli tra i lupi, mandati a predicare la parola di Dio anche ai criminali, con tutti i rischi che questa funzione comporta.

Se don Abbondio teme per la propria vita non avrebbe dovuto abbracciare il sacerdozio, e il cardinale si chiede, come mai l'amore per i suoi parrocchiani, per quelli che sono i suoi figlioli, non è riuscito a scacciare ogni timore. E poi tace come chi si aspetta una risposta[4].

 

Alcuni estratti significativi del capitolo 25

 

[1] Col dottor Azzecca-garbugli, che non aveva se non chiacchiere e cabale, e con altri cortigianelli suoi pari, non s’usava tanti riguardi: eran mostrati a dito, e guardati con occhi torti; di maniera che, per qualche tempo, stimaron bene di non farsi veder per le strade.

 

[2] Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d’ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso stanno come possono. Con l’idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche, ce n’era per disgrazia molte delle storte; e non eran quelle che le fossero men care.

 

[3] Teneva essa per certo, come se lo sapesse di buon luogo, che tutte le sciagure di Lucia erano una punizione del cielo per la sua amicizia con quel poco di buono, e un avviso per far che se ne staccasse affatto; e stante questo, si proponeva di cooperare a un così buon fine. Giacchè, come diceva spesso agli altri e a se stessa, tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello. Però, della seconda intenzione che abbiam detto, si guardò bene di darne il minimo indizio. Era una delle sue massime questa, che, per riuscire a far del bene alla gente, la prima cosa, nella maggior parte de’ casi, è di non metterli a parte del disegno.

 

[4] «...Ah! se per tant’anni d’ufizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido. Ebbene, se voi gli amavate, quelli che sono affidati alle vostre cure spirituali, quelli che voi chiamate figliuoli; quando vedeste due di loro minacciati insieme con voi, ah certo! come la debolezza della carne v’ha fatto tremar per voi, così la carità v’avrà fatto tremar per loro. Vi sarete umiliato di quel primo timore, perchè era un effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza per vincerlo, per discacciarlo, perchè era una tentazione: ma il timor santo e nobile per gli altri, per i vostri figliuoli, quello l’avrete ascoltato, quello non v’avrà dato pace, quello v’avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava... Cosa v’ha ispirato il timore, l’amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?»

E tacque in atto di chi aspetta.

 

 


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