Guerra per la successione al ducato di Mantova e Monferrato.

Morto il duca Vincenzo Gonzaga, scoppia la guerra per la successione al ducato di Mantova e del Monferrato che vede contrapposti gli interessi di Francia e Spagna.  Il governatore di Milano teme che Venezia stia appoggiando segretamente il pretendente sostenuto dai francesi. Quando viene a sapere della vicenda di Renzo Tramaglino, accusato di essere un capo rivolta, che si è rifugiato nel bergamasco, un territorio appartenente alla Repubblica Veneta, ne approfitta per far passare i veneziani come nemici della Spagna. Di conseguenza la giustizia veneta di occupa della ricerca del presunto rivoltoso nel proprio territorio.

Renzo, quando viene a sapere di essere perseguitato anche nel territorio bergamasco, si nasconde sotto falso nome nel suo nuovo rifugio, e per diverso tempo non riesce più a dare sue notizie.

 

La corrispondenza fra Renzo e Agnese

Il giovane riesce a malapena a leggere lo stampato, ma non la scrittura a mano, e non sa scrivere affatto.

Per poter comunicare tramite corrispondenza, è costretto a cercare una persona fidata che gli faccia da scrivano. Lo stesso problema riguarda anche Agnese che per leggere e scrivere lettere deve farsi aiutare da un suo cugino.

Fra i due inizia una corrispondenza molto confusa, e il Manzoni a questo punto fa una disgressione sulla corrispondenza epistolare fra analfabeti, cosa all'epoca molto diffusa.

L'autore spiega che l’analfabeta deve necessariamente rivolgersi ad uno scrivano, e preferisce sceglierlo della stessa condizione sociale perché non si fida degli altri. Lo scrivano fraintende alcune cose oppure propone dei cambiamenti e quando la lettera arriva al destinatario, questi la porta da uno scrivano per farsela leggere, che però non sempre riesce a comprendere perfettamente il contenuto. Infine il destinatario fa scrivere una risposta al suo scrivano che si comporta più o meno come quello precedente, per cui anche la seconda lettera quando arriva è soggetta a fraintendimenti. Se poi i due corripondenti non dicono tutto chiaramente, perché non vogliono far sapere tutti i fatti loro agli scrivani, non riescono a intendersi, così come succede a due filosofi scolastici che discutono su questioni dottrinali[1].

La corrispondenza fra Renzo e Agnese è proprio di questo tipo, e in qualche modo Renzo riesce ad aggiornare Agnese sulla sua situazione, riceve i 50 scudi e viene informato del voto di castità di Lucia, con la raccomandazione di mettersi il cuore in pace. Ma Renzo non intende rinunciare al matrimonio e decide di conservare i soldi ricevuti come dote.

 

Lucia a casa di donna Prassede

Dal canto suo Lucia è molto lieta di sapere che Renzo è al sicuro, e si augura solo che il giovane la dimentichi.

Tuttavia il giovane compare sempre nella mente di Lucia, anche perché donna Prassede, lo nomina continuamente descrivendolo come un delinquente e spingendo la ragazza a prendere le sue difese. Ma donna Prassede non cedeva di certo neanche di fronte al dispiacere che i suoi rimbrotti destavano nella povera ragazza[2].

Per fortuna la nobildonna è impegnata a voler metter in riga molte persone, fra cui le sue cinque figlie e tutta la servitù. Il marito don Ferrante è l’unico che si sottrae alle pretese della donna[3], e preferisce passare la maggior parte del tempo nella sua biblioteca, dove ha raccolto più di trecento volumi. Sono tutti libri importanti in varie discipline, come la filosofia, l’astrologia, la storia, la magia, la politica, la cavalleria, e in alcune di queste il nobile passa per essere un vero esperto.

La vita dei due giovani continua senza grossi cambiamenti fino all’autunno del 1629, quando Agnese e Lucia decidono di incontrarsi,  ma il loro intento fallisce a causa di un grande avvenimento pubblico, che l’autore racconterà nel capitolo successivo.

 

Alcuni estratti significativi del capitolo 27

 

[1] Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po’ geloso; se c’entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c’è stata anche l’intenzione positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici che da quattr’ore disputassero sull’entelechia...

 

[2] Se donna Prassede fosse stata spinta a trattarla in quella maniera da qualche odio inveterato contro di lei, forse quelle lacrime l’avrebbero, tocca e fatta smettere; ma parlando a fin di bene, tirava avanti, senza lasciarsi smovere: come i gemiti, i gridi supplichevoli, potranno ben trattenere l’arme d’un nemico, ma non il ferro d’un chirurgo.

 

[3] Donna Prassede, dopo aver tentato per qualche tempo, e inutilmente, di tirarlo dal lasciar fare al fare, s’era ristretta a brontolare spesso contro di lui, a nominarlo uno schivafatiche, un uomo fisso nelle sue idee, un letterato; titolo nel quale, insieme con la stizza, c’entrava anche un po’ di compiacenza.

 

 


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