Gli effetti del prezzo del pane ribassato
In seguito ai tumulti di San Martino il prezzo del pane viene nuovamente calmierato, e i rivoltosi sono soddisfatti pensando che la loro iniziativa sia stata fruttuosa. Tuttavia aleggia il sospetto che la situazione non possa durare a lungo, e tutti cercano di far provvista di pane, granaglie e farina[1]. Perfino la gente di campagna si trasferisce in città per godere dei prezzi bassi, accelerando il tal modo il consumo delle scorte.
Vengono approvate alcune leggi che, da un lato cercano di limitare gli acquisti e dall'altro di obbligare i fornai a produrre pane in quantità sufficienti. Si pensa addirittura di inserire il riso nella produzione del pane ma per far questo è necessario calmierare anche il prezzo del riso, troppo alto rispetto a quello del grano.
Il 24 dicembre vengono impiccati i presunti rivoltosi, e da quel momento sembra che il governo abbandoni gli eventi al loro corso, e così i prezzi calmierati cessano di valere.
Esplode nuovamente la carestia e la miseria. I negozi e le fabbriche chiudono, e in città si trovano schiere di mendicanti costretti all'elemosina.
I tentativi di arginare la miseria e le malattie
Il cardinale Borromeo organizza dei soccorsi, sei preti divisi in tre coppie e seguiti da facchini che trasportano cibo e vesti, girano nella città cercando di aiutare i più bisognosi. A volte danno un po' di danaro o pagano una pensione dove alloggiare. Nel palazzo arcivescovile vengono distribuite duemila scodelle di minestra di riso. Ma queste iniziative, per quanto lodevoli, sono del tutto inadeguate rispetto alla vastità della miseria. Di giorno si sente un ronzio di voci supplichevoli e di notte un sussurro di gemiti.
Eppure, nonostante una situazione così grave, non si verifica il minimo accenno di protesta e l'autore fa una considerazione sulla natura umana, su come le persone si ribellano di fronte a mali di minore gravità, ma piegano il capo di fronte a quelli estremi[2].
Poiché molta gente muore per strada, le autorità decidono di raccogliere gli accattoni nel lazzaretto, una costruzione di duecentottant'otto stanze costruita nel 1498 come ricovero per gli ammalati di peste. In pochi giorni il numero di ricoverati arriva a diecimila. In una situazione del genere, con numero così elevato di persone ammassate in un ambiente putrido, senza acqua potabile e con cibi scarsi e poco nutrienti, la mortalità aumenta al punto che si comincia a parlare di pestilenza.
Per cercare di arginare questa pericolosa situazione, il provvedimento viene annullato e le persone liberate. Gli infermi vengono portati nell'ospizio dei poveri di Santa Maria della Stella.
Finalmente arriva un nuovo raccolto fa cessare la carestia, molti contadini ritornano in campagna e la città si libera delle folle di mendicanti, ma la malattia e la mortalità di protrae per un certo periodo anche se tende a diminuire.
La guerra e l'arrivo dei Lanzichenecchi
Ma ben presto arriva una nuova sciagura: la guerra. L'esercito francese scende in Italia per intervenire nella guerra per la successione al ducato di Mantova e del Monferrato. Quando l'esercito francese si ritira, dopo aver conquistato Casale, da un altro lato avanza l'esercito germanico di Ferdinando, costituito in gran parte da Lanzichenecchi. Questi sono mercenari, che vengono compensati con il bottino di guerra, e che di conseguenza saccheggiano violentemente ogni luogo che attraversano. Ma il maggior pericolo è costituito dal fatto che sono portatori di peste.
Il medico Alessandro Tadino comunica il pericolo di contagio a don Gonzalo, il quale dice che non può opporsi al passaggio delle armate, e si limita a imporre dei provvedimenti che vietano ai cittadini di comprare merce dai Lanzichenecchi.
Successivamente il re di Spagna rimuove don Gonzalo dal suo incarico, per l'insuccesso dell'assedio di Casale. Il governatore lascia la città attraversando le strade in carrozza, con una scorta di alabardieri, un seguito di nobili e due trombettieri che lo precedono. La folla, richiamata dagli squilli di tromba, si accalca intorno alla carrozza del governatore, riempiendolo di improperi e alla fine anche tirandogli sassi, mattoni e ogni sorta di immondizie.
Con una certa ironia, Manzoni fa notare che durante tutto il percorso del corteo, dal palazzo di corte fino a porta ticinese, i trombettieri non hanno mai smesso di suonare, richiamando sempre più gente[3].
Dopo la sua triste partenza, arriva al suo posto il genovese Ambrogio Spinola, già famoso per le imprese militari nelle Fiandre.
Nel frattempo l'armata dei Lanzichenecchi scende nel ducato di Milano[4], mettendo a soqquadro e saccheggio tutto il territorio, bruciano le case e violentano la popolazione con stupri e uccisioni.
Alcuni estratti significativi del capitolo 28
[1] In mezzo però alla festa e alla baldanza, c’era (e come non ci sarebbe stata?) un’inquietudine, un presentimento che la cosa non avesse a durare. Assediavano i fornai e i farinaioli, come già avevan fatto in quell’altra fattizia e passeggiera abbondanza prodotta dalla prima tariffa d’Antonio Ferrer; tutti consumavano senza risparmio; chi aveva qualche quattrino da parte, l’investiva in pane e in farine; facevan magazzino delle casse, delle botticine, delle caldaie. Così, facendo a gara a goder del buon mercato presente, ne rendevano, non dico impossibile la lunga durata, che già lo era per sè, ma sempre più difficile anche la continuazione momentanea.
[2] Ma noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi; sopportiamo, non rassegnati ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile.
[3] E nel processo che si fece poi su quel tumulto, uno di costoro, ripreso che, con quel suo trombettare, fosse stato cagione di farlo crescere, risponde: “caro signore, questa è la nostra professione; et se S. E. non hauesse hauuto a caro che noi hauessimo sonato, doveva comandarne che tacessimo.” Ma don Gonzalo, o per ripugnanza a far cosa che mostrasse timore, o per timore di render con questo più ardita la moltitudine, o perchè fosse in effetto un po’ sbalordito, non dava nessun ordine.
[4] Eran vent’otto mila fanti, e sette mila cavalli; e, scendendo dalla Valtellina per portarsi nel mantovano, dovevan seguire tutto il corso che fa l’Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume fino al suo sbocco in Po, e dopo avevano un buon tratto di questo da costeggiare: in tutto otto giornate nel ducato di Milano.