Don Abbondio, Agnese e Perpetua vanno al castello dell’Innominato
Sul calesse procurato dal sarto don Abbondio, Agnese e Perpetua viaggiano verso il castello dell’Innominato. Per strada incontrano molte persone dirette alla fortezza, che raccontano storie orribili sui saccheggi dei Lanzichenecchi. Il sacerdote è preoccupato per la folla che si sta rifugiando nel castello, perché a suo parere questo attirerà l’attenzione dei soldati in cerca di bottino.
Quando il calesse giunge alla taverna Malanotte, i tre scendono e don Abbondio fa gesti cerimoniosi agli uomini armati posti di guardia, quindi paga il conducente, e insieme alle due donne si avvia a piedi lungo la salita che porta al castello. Nel frattempo l’Innominato, che sta scendendo lungo il sentiero, riconosce don Abbondio e, saputo che una delle due donne è la madre di Lucia, la accoglie con grande cordialità dandole il benvenuto, mentre lei lo ringrazia per i 100 scudi donati a Lucia come dote. L’uomo accompagna gli ospiti fino al castello, poi scambia qualche parola con don Abbondio, rassicurandolo sul fatto che la fortezza è ben difesa, ma il curato continua a nutrire dubbi e paure[1].
I tre restano al castello più di venti giorni, durante i quali non accade niente di particolare, ad eccezione di frequenti allarmi per l’arrivo dei Lanzichenecchi. Perlopiù sono voci infondate, oppure piccole retroguardie di soldati sbandati che l’Innominato, a capo di un drappello armato, riesce a mettere in fuga facilmente. In un solo caso giunge voce di un saccheggio in un paese vicino, e l’Innominato decide di intervenire in soccorso con i suoi uomini. Riesce a cogliere di sorpresa i soldati tedeschi che si danno a un fuga precipitosa. Per un po’ li insegue, ma solo per spaventarli. Quando ritorna indietro e ripassa per il paese, viene accolto come un liberatore, fra applausi e benedizioni[2].
La permanenza nel castello
Nel castello, nonostante l’affollamento e la presenza di persone di condizione sociale diversa, la convivenza risulta pacifica, anche perché l’Innominato con l’aiuto dei suoi uomini e dei sacerdoti presente, fa il possibile per evitare tafferugli. Le persone più ricche spesso vanno a pranzare nelle osterie a valle, mentre chi ha meno disponibilità riceve il vitto dal padrone di casa.
Agnese e Perpetua si danno molto da fare con vari servizi, per ripagare dell’ospitalità ricevuta, mentre don Abbondio è troppo spaventato per occuparsi di qualcosa, e rimane sempre in apprensione e assorto nei suoi pensieri. Non si allontana mai dal castello e non parla con nessuno, ad eccezione di Agnese e Perpetua, che spesso lo rimbrottano per le sue lamentele. Ogni giorno arrivano notizie sul passaggio dei soldati, dei loro saccheggi, spesso esagerate dalla fantasia, finché arriva voce che hanno lasciato la regione.
Dal castello, a poco alla volta, i rifugiati iniziano a ritornare nelle loro case, mentre don Abbondio si attarda perché ha paura di incontrare per strada qualche drappello di soldati sbandati. Alla fine decidono di partire e l’Innominato fa preparare una carrozza alla Malanotte e, dopo aver donato ad Agnese un corredo di biancheria e del danaro, si congeda dai suoi ospiti.
Il ritorno a casa
I tre passano prima a casa del sarto e dopo ripartono diretti al loro paese. Lungo il viaggio vedono i segni del passaggio dei soldati: vigne spogliate, usci sfondati, gente impegnate a ripulire le case messe a soqquadro. Quando arrivano a casa, Agnese si mette subito a ripulire la sua abitazione, ma è ben felice di aver trovato la biancheria e il denaro dell’Innominato.
Don Abbondio e Perpetua trovano la casa devastata, piena di sudiciume, stoviglie rotte, resti di bivacchi, mentre sul muro ci sono delle caricature di preti disegnate coi carboni[3]. Una sorpresa ancora più brutta li attende nell’orto: i soldati hanno trovato il denaro e l’argenteria nascosta nel terreno ai piedi del fico. Perpetua a furia di chiedere in giro, viene a sapere che molti oggetti che mancano in casa, non sono stati portati via dai soldati, ma da alcuni paesani. La donna insiste con don Abbondio affinché se li faccia restituire, ma il sacerdote non ne vuole sapere, perché non vuole avere nulla a che fare con quelle persone che lui ritiene prepotenti. Perpetua accusa duramente il curato di essere troppo codardo e non sapere farsi valere[4]. Don Abbondio, stufo di sentire rimbrotti e ramanzine, quando si accorge di qualcosa che manca non dice più niente, e si preoccupa solo di tenere la porta ben sprangata, con la paura che possa passare ancora qualche mercenario.
Ma un nemico ancora più terribile sta per arrivare.
Alcuni estratti significativi del capitolo 30
[1] «Bene, si faccia coraggio,» riprese l’innominato: «ché ora è in sicuro. Quassù non verranno; e se si volessero provare, siam pronti a riceverli.»
«Speriamo che non vengano,» disse don Abbondio. «E sento,» soggiunse, accennando col dito i monti che chiudevano la valle di rimpetto, «sento che, anche da quella parte, giri un’altra masnada di gente, ma... ma...»
«E vero,» rispose l’innominato: «ma non dubiti, che siam pronti anche per loro.»
«Tra due fuochi» diceva tra sé don Abbondio: «proprio tra due fuochi. Dove mi son lasciato tirare! e da due pettegole! E costui par proprio che ci sguazzi dentro! Oh che gente c’è a questo mondo!»
[2] Arrivarono inaspettati. I ribaldi che avevan creduto di non andar che alla preda, vedendosi venire addosso gente schierata e pronta a combattere, lasciarono il saccheggio a mezzo, e se n’andarono in fretta, senz’aspettarsi l’uno con l’altro, dalla parte dond’eran venuti. L’innominato gl’inseguì per un pezzo di strada; poi, fatto far alto, stette qualche tempo aspettando, se vedesse qualche novità; e finalmente se ne ritornò. E ripassando nel paesetto salvato, non si potrebbe dire con quali applausi e benedizioni fosse accompagnato il drappello liberatore e il condottiero.
[3] C’era, dico, un rimasuglio di tizzi e tizzoni spenti, i quali mostravano d’essere stati, un bracciolo di seggiola, un piede di tavola, uno sportello d’armadio, una panca di letto, una doga della botticina, dove ci stava il vino che rimetteva lo stomaco a don Abbondio. Il resto era cenere e carboni; e con que’ carboni stessi, i guastatori, per ristoro, avevano scarabocchiati i muri di figuracce, ingegnandosi, con certe berrettine o con certe cheriche, e con certe larghe facciole, di farne de’ preti, e mettendo studio a farli orribili e ridicoli: intento che, per verità, non poteva andar fallito a tali artisti.
[4] «Ma se non ne voglio saper nulla di queste cose,» diceva. «Quante volte ve lo devo ripetere, che quel che è andato è andato? Ho da esser messo anche in croce, perchè m’è stata spogliata la casa?»
«Se lo dico,» rispondeva Perpetua, «che lei si lascerebbe cavar gli occhi di testa. Rubare agli altri è peccato, ma a lei, è peccato non rubare.»
«Ma vedete se codesti sono spropositi da dirsi!» replicava don Abbondio: «ma volete stare zitta?»