Le prime notizie sulla diffusione della peste in provincia
In questo capitolo il Manzoni si propone di raccontare per sommi capi la diffusione della peste a Milano, facendo notare che i documenti del seicento sono piuttosto confusi, imprecisi, con errori e omissioni.
La peste inizia a diffondersi nell'autunno del 1629 lungo la striscia di territorio attraversata dall'esercito dei Lanzichenecchi. La maggior parte delle persone non conosce i sintomi della malattia, ma i più vecchi rammentano la peste di S. Carlo del 1576 che aveva provocato moltissimi morti in Italia settentrionale. Già il 20 ottobre dello stesso anno, un medico ottantenne, Lodovico Settala, che ha visto in gioventù l'epidemia precedente e ne riconosce i sintomi, avverte le autorità che il contagio si sta diffondendo nella provincia di Lecco, ma non viene preso alcun provvedimento serio. Notizie simili arrivano da altri luoghi, e il Tribunale decide di mandare un commissario e un medico a visitare le zone segnalate. Questi però si lasciano convincere da un barbiere che non si tratta di peste, ma di febbri legate alle esalazioni delle paludi.
Solo successivamente, quando le notizie diventano sempre più allarmanti, viene inviato il medico Alessandro Tadino con un magistrato, i quali riferiscono alle autorità sanitarie che la peste si è diffusa fra Lecco e Como con un numero enorme di morti. Qualche settimana dopo i due vengono sentiti dal governatore, che però, troppo preso dalle preoccupazioni della guerra in corso, non prende provvedimenti contro la diffusione del morbo.
Anche fra la popolazione il pericolo della peste non sembra essere preso sul serio, anzi, chi ne parla spesso viene deriso. Lo stesso Tribunale di Sanità è molto lento nell'approvare le grida che stabiliscono un cordone sanitario intorno alla città, che vengono pubblicate solo quando la peste è già arrivata.
La peste arriva a Milano
Secondo alcune testimonianze storiche la peste sarebbe arrivata Milano tramite un soldato italiano al servizio degli Spagnoli, entrato in città con un fagotto di indumenti comprati o forse rubati ai Lanzichenecchi. Muore pochi giorni dopo, quando altre persone hanno già contratto il morbo, che inizia a diffondersi anche a causa di altre persone infette entrate in città prima che fosse istituito il cordone sanitario.
La peste si diffonde silenziosamente fra la fine del 1629 e i primi mesi del 1630, con un numero di decessi limitato, anche perché spesso i medici attribuiscono i decessi a cause diverse e molti malati non vengono denunciati per paura di finire al lazzaretto.
Nel frattempo la popolazione si dimostra particolarmente ostile nei confronti di tutti coloro che tentano di combattere il morbo, compresi i magistrati e i medici, che vengono presi a parolacce e qualche volta a sassate. Il Manzoni fa notare con sarcasmo che l'autorevole medico Lodovico Settala viene aggredito da una folla inferocita perché andava a curare i malati, mentre era stato lodato come sapiente quando aveva fatto torturare e bruciare al rogo una presunta strega[1].
Verso la fine di marzo del 1630 la peste inizia a diffondersi in tutta la città. Tuttavia i medici che erano stati contrari all'idea che si trattasse di peste, pur di non ammettere il loro errore, inventano per la malattia alcuni nuovi nomi come febbre maligna o febbre pestilenziale, ingannando ancor di più le persone, indotte a pensare che la malattia non si trasmette per contatto.
Il lazzaretto si affolla a dismisura fino a quando la situazione diventa del tutto incontrollabile. Le autorità affidano la cura del lazzaretto al padre cappuccino Felice Casati, che insieme a molti suoi confratelli lavora instancabilmente per assistere i malati. Si ammala di peste ma riesce a guarire, mentre molti altri cappuccini si contagiano e muoiono.
L'ignoranza del popolo e la ricerca ossessiva di responsabili.
Intanto comincia a circolare l'idea che la peste sia causata da unguenti infetti cosparsi deliberatamente da alcuni "untori". Questa credenza diventa una vera e propria psicosi di massa, al punto che molti cittadini vengono accusati di essere degli untori, ma le inchieste della magistratura non portano mai a nulla di concreto. In particolare un evento misterioso rafforza questa credenza: una mattina un lungo tratto delle mura di Milano appare imbrattato con una sostanza di colore giallo, come se fosse stata cosparsa con una spugna. La popolazione ne rimane sconvolta ma le inchieste in merito non approdano a nulla. Gran parte della popolazione è convinta che non si tratti di peste, perché si crede che tutti i malati dovrebbero morire, mentre in realtà alcuni riescono a guarire. Questa falsa convinzione viene sostenuta anche da alcuni medici.
Per mettere fine a queste dicerie senza fondamento, le autorità adottano un rimedio drammatico. Il giorno di pentecoste, quando molti cittadini si recano al cimitero di S. Gregorio a pregare per i morti della peste precedente, nel momento di maggior afflusso, viene fatto passare un carro che trasporta i cadaveri di una intera famiglia morta di peste. I corpi sono nudi e sono chiaramente visibili i segni del morbo. L'orrore di quella visione fa sparire ogni dubbio, e da quel giorno la peste viene creduta da tutti[2].
Il capitolo chiude con una riflessione su come gli uomini tendono a distorcere la realtà con l'uso delle parole. Si potrebbero evitare molti danni imparando a osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima ancora di parlare. Ma gli uomini sanno solo parlare, e da questo punto di vista possono essere solo compatiti[3].
Alcuni estratti significativi del capitolo 31
[1] Un giorno che andava in bussola (portantina) a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa d’amici, che per sorte era vicina. Questo gli toccò per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone: quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perchè il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei, allora ne avrà avuta presso il pubblico nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile a pensare, nuovo titolo di benemerito.
[2] Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla.
[3] In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.
Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.
Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire.