Don Rodrigo si ammala di peste
Verso la fine di agosto del 1630, quando la peste è al massimo della sua virulenza, don Rodrigo rientra accompagnato dal Griso, dopo una serata passata con amici ad un festino, dove aveva ironicamente celebrato il defunto cugino Attilio, morto di peste due giorni prima. Avverte una certa stanchezza, sente il respiro pesante e una grande arsura. Si affanna a ripetere che la cosa è dovuta al troppo vino bevuto e si ritira nella sua stanza per andare a letto[1].
Durante la notte ha un incubo, vede una folla di appestati che gli si stringe intorno e padre Cristoforo che da un pulpito lo guarda e punta il dito verso di lui, vorrebbe muoversi ma sente un dolore insopportabile fra il cuore e l'ascella sinistra e si sveglia. Realizza che si è trattato di un incubo ma il dolore vicino all'ascella c'è ancora, e guardando si accorge inorridito che si tratta di un bubbone violaceo.
Il Griso tradisce don Rodrigo
Don Rodrigo chiama il Griso, pregandolo di chiamare un medico noto per non denunciare gli appestati. Ma il Griso lo tradisce, e ritorna insieme a due monatti[2]. Uno di loro si getta addosso al signorotto per immobilizzarlo, mentra il Griso e l'altro monatto si occupano di scassinare lo scrigno in cui è custodito il denaro.
Don Rodrigo tenta di divincolarsi, ma è troppo fiacco e alla fine sviene. I monatti prendono la loro parte di bottino e portano via il signorotto al lazzaretto.
Il Griso si trattiene ancora in casa, sceglie con cura cosa portarsi via, alla fine raccoglie tutto in un fagotto e lascia il palazzo. Il giorno dopo perde i sensi mentre si trova in una lurida taverna. Viene caricato su un carro dai monatti per portarlo al lazzaretto, ma viene stroncato dalla malattia durante il tragitto.
Renzo, dopo essere guarito dalla peste, ritorna al paese
Nel frattempo anche Renzo, che ancora si nasconde sotto falso nome nel bergamasco, viene contagiato dalla peste. Grazie alla sua forte tempra riesce a guarire, e subito dopo, e dato che ormai le autorità non si interessano più di lui, inizia a cercare Lucia. Il viaggio di Renzo è molto doloroso. Lungo il suo percorso vede solo spettacoli orrendi e quando giunge al suo paese, trova solo un silenzio spettrale.
Incontra Tonio, che però è solo l'ombra di sé stesso. Dice parole sconclusionate e non riesce neanche a riconoscere Renzo.
Poi incontra don Abbondio, che appare debole e affaticato[3]. Anche lui è stato colpito dalla peste, ma per fortuna ne è uscito vivo. Non è stato così purtroppo per la povera Perpetua, e tanti altri del paese. Il curato informa il giovane su Lucia, che è andata a Milano, Agnese che si trova da certi suoi parenti a Pasturo, e frate Cristoforo che è stato allontanato da Pescarenico. Dopo di che, sempre preso dalla paura, lo invita ad andarsene subito, tanto più che è ricercato.
Renzo viene a sapere che Lucia è a Milano.
Nel seguitare il suo cammino, Renzo passa davanti alla sua vigna, che ormai è ridotta in uno stato pietoso, si dirige verso casa passando per l'orto, anch'esso infestato di erbacce, e quando attraversa l'uscio vede il pavimento ricoperto dal sudiciume lasciato dai Lanzichenecchi, le pareti affumicate e il soffitto invaso dalle ragnatele. Se ne va amareggiato e si dirige verso la casa di un suo amico.
Quando raggiunge l'abitazione trova il suo amico ancora vivo e in buona salute. I due si salutano affettuosamente e l'amico gli prepara subito qualcosa da mangiare. Informa Renzo di tutte le novità: Lucia è in casa di don Ferrante a Milano, don Rodrigo ha lasciato il paese, il podestà è morto di peste, e i pochi sbirri rimasti non hanno certo tempo per cercare Renzo.
Il mattino dopo Renzo si avvia verso Milano. Dopo aver attraversato tutto il giorno luoghi desolati e squallidi, pernotta in una cascina, dormento su un mucchio di fieno. Il mattino dopo arriva a Milano.
Alcuni estratti significativi del capitolo 33
[1] Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un’arsione interna, che avrebbe voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprì bocca, per tutta la strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu d’ordinare al Griso che gli facesse lume per andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perchè, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto acquistar, come si dice, l’occhio medico.
[2] Tutt’a un tratto, sente uno squillo lontano, ma che gli par che venga dalle stanze, non dalla strada. Sta attento; lo sente più forte, più ripetuto, e insieme uno stropiccìo di piedi: un orrendo sospetto gli passa per la mente. Si rizza a sedere, e si mette ancor più attento; sente un rumor cupo nella stanza vicina, come d’un peso che venga messo giù con riguardo; butta le gambe fuor del letto, come per alzarsi, guarda all’uscio, lo vede aprirsi, vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare.
[3] Ed ecco spuntar da una cantonata, e venire avanti una cosa nera, che riconobbe subito per don Abbondio. Camminava adagio adagio, portando il bastone come chi n’è portato a vicenda; e di mano in mano che s’avvicinava, sempre più si poteva conoscere nel suo volto pallido e smunto, e in ogni atto, che anche lui doveva aver passata la sua burrasca.